mercoledì 24 settembre 2008

Ground Zero

Manhattan (NY),
September 21st

E’ difficile da spiegare, ma mentre stai scendendo lungo la Broadway Avenue capisci che ti ci stai avvicinando anche senza chiedere informazioni. Senti Ground Zero vicino. Lo senti quasi dentro di te. Lo avverti perché, inspiegabilmente, New York fa sempre più silenzio. Il traffico sembra quasi ovattarsi dentro una coperta invisibile. La folla di gente che corre sui marciapiedi si dirada e comincia ad andare più lenta. Poi controlli la cartina. Dovresti essere arrivato, ma sei confuso. Pensi. Non riesci a vedere niente. E’ in quel preciso istante che Ground Zero dopo esserti entrato silenziosamente dentro, ti esce prepotentemente dagli occhi. Niente vedi perché niente c’è.
Un tempo il sole faceva fatica a farsi spazio in mezzo quelle due enormi gemelle che sembravano solleticare il cielo. Oggi il sole splende triste, immenso, senza alcun ostacolo, sul silenzio surreale del Word Trade Center. Un silenzio dentro il quale ti pare di sentire rumorosissime le urla di chi, quell’undici Settembre, il sole lo vide per l’ultima volta. Le urla ormai silenziose in quel luogo dove sette anni fa gli aerei volarono un po’ troppo bassi.
Su una targa al muro campeggia la scritta “We Remember”. Il grido di un’America che non vuole scordare chi, suo malgrado, è divenuto immortale un giorno in cui avrebbe solo voluto prendere la metro per tornare a casa. Ma non è riuscito a varcarne le porte.

Seduto su una panchina nel parco vicino, ammiro la skyline (il contorno dei grattacieli) della costa opposta del New Jersey. Un tempo a quei grattacieli si contrapponevano, imponenti, le Twin Towers. Oggi il nulla. E ripenso a quel giorno, quando delle mani su un computer, che probabilmente non avranno mai una faccia, (testimonianza di mio fratello, che all’epoca lavorava per una Banca londinese) ordinarono un’incredibile vendita di massa di obbligazioni. Così, senza motivo. Qualche ora dopo due boeing si abbatterono contro le Torri Gemelle facendo crollare, come mai nella storia, Wall Street. E nel silenzio del World Trade Center una terribile domanda non avrà mai risposta: quel dramma fu davvero inaspettato?

Enricuzzu

(nella foto) Commemorazione delle Twin Towers

domenica 21 settembre 2008

Brooklyn: un ponte fra l'Italia e New York.

Brooklyn (NY),
September 19th

Finalmente ci siamo. Si comincia a masticare a masticare un poco di azienda, obbiettivo primario direi, per il quale ho stampato il timbro USA nel mio passaporto. Brooklyn di mattina splende come se fosse un altro posto. Lontano dalla frenesia di Manhattan, da queste parti non trovi gente che corre anche quando mangia, non trovi pazzi scatenati che saltano per strada urlando “taaaaxi!”. Qui la gente si prende il su tempo, per quanto è possibile, ma non smette di fare il suo lavoro.
La Dolce Amore si trova qua. Proprio subito dopo il ponte. Mr. Arpaia è il classico napoletano bonaccione, grassottello e piacione. Insomma uno che ti ispira fiducia subito. “Vieni con me, Enrico.” Mi dice in un napoletano un po’ americanizzato. In fondo gli anni oltreoceano (più di trenta… io non ero neanche nei pensieri di Cristo) si fanno sentire. Mi fa entrare dentro la fabbrica e mi mostra le prelibatezze che la Dolce Amore produce. Gelato, dessert, ma soprattutto pasta fresca di ogni tipo. Ed è quando mi mostra i ravioli che Mr. Arpaia si ferma quasi incantato. Li scruta, ne prende uno e quasi lo accarezza come un piccolo tesoro. Se noi italiani siamo famosi per la pasta - mi spiega - è perché ci teniamo così tanto. E anche perché per produrla serve ognuno di questi macchinari che da solo costa quanto una Ferrari, continua. E giù la risata.

Per quanto fossero interessanti tartufi e tagliatelle però, a me serviva guardare altro. E per ciò, salutato Mr. Arpaia, mi metto in macchina con Marcello, suo figlio, per andare a consegnare dei prodotti e andare a fare relazioni pubbliche con i clienti di Manhattan. Per quanto bella fosse Brooklyn infatti, il business vero è sempre nella City o nel New Jersey, stato vicino reso famoso dai Soprano’s. Per arrivare a Manhattan il ponte è d’obbligo. Lungo il Brooklyn Bridge (che fa compagnia al Williamsburg e al Manhattan Bridge, gli altri due ponti che collegano i due borough) capisci perché lo scelgono due volte su tre per stampare le cartoline di saluti da New York. Semplicemente stupendo. Come un ponte di infinite possibilità che ti fa sognare sfrecciando nel traffico. Letteralmente sfrecciando, perché l’autista dell’azienda, un simpatico dominicano che parla un diffusissimo “spanglish” da queste parti (misto fra inglese e spagnolo che io – mica scemo – parlo entrambi), da quel che ho visto mancava poco e per guadagnare qualche secondo si infilava su due ruote fra un taxi e un pullman.

Vi racconterei dei club privati o dei ristoranti che abbiamo girato per promuovere i prodotti ma forse vi annoierei e – anyway – il tempo è tiranno. Di questa Brooklyn mi resta una simpatica fotografia. Un posto così lontano e allo stesso tempo così vicino alla City dove fra un parco e l’altro puoi trovare la magia dei ravioli di un simpatico napoletano che ha esportato la sua terra sul suolo americano. Chissà che non trovi una stanza dove abitare proprio da queste parti. No, non sarebbe affatto male percorrere questo ponte ogni mattina.

Enricuzzu

(nella foto) Il ponte di Brooklyn

venerdì 19 settembre 2008

American Burger: un popolo in un panino!

Manhattan (NY),
September 18th

Girando un pò di qua, un pò di la fra i borough (quartieri) di New York ho dovuto fare di necessità virtù e buttato dentro il mio stomaco le più strane prelibatezze che la Grande Mela potesse offirmi. Ma una cosa, ho realizzato, ci rende tutti americani al primo mozzico. Solo una cosa riesce ad unire tutta la nazione in un boccone. Entri in un fast food e urli a sguarciagola: "An american burger !!!". Se non ti lanciano una padellata in faccia subito, sei ufficialmente entrato nel mondo a stelle e strisce.
Già perchè il burger nelle sue varianti "cheese" e "chicken" è quanto di più caratteristico può vestire la Nazione. In un panino che trasborda entusiasmo, forse al limite dell'esagerazione, il popolo yankee ci si riconosce. Capiamoci, un panino caprese mangiato in riva al mare in Italia lo addenti delicatamente... un american burger lo devi mozzicare spalancando le fauci al limite del blocco mandibolare, buttare gli occhi di fuori e magari se ti riesce fare qualche rumore strano. E' la sintesi di una Nazione che sulla forma punta tutte le sue fiches, sull'apparenza gioca tutta la posta. Devi fare vedere che esageri se vuoi essere statunitense. Gli altri possono anche accontentarsi.

Cosa fai poi se ti ritrovi solo, sperduto, a girovagare per Manhattan? Semplicissimo, conosci persone. E alla mia faccia da provolone semipiccante devo la conoscenza di Sheena e Shing, studentesse, anglo-indiana la prima, mezza cinese mezza non cosa la seconda. Ma entrambe con la voglia di sentirsi statunitensi anche solo per un mozzicone di burger. In fondo, da queste parti dicono che se ti inchiappi tutto con il ketchup, guadagni punti. Ti meriti quasi un applauso. "You got the point!". In pratica un altro mondo.
E bella forza, mi serviva un panino pieno di porcate per capirlo!

Enricuzzu

(nella foto) In un fast food sulla Broadway Avenue con Sheena e Shing

giovedì 18 settembre 2008

Central Park

Manhattan (NY),
September 17th

Ed eccomi qui. Fresco e spettinato, ma sopratutto atterrato in una New York che sembrava proprio non aspettarmi.
Onestamente, al secondo giorno a Manhattan, non saprei cosa mi ha spinto verso quel posto. Una forza inspiegabile mi ha trascinato come d'impulso al primo momento libero. In men che non si dica, mi sono ritrovato dentro Central Park, nel cuore della Grande Mela.
Non so perche' sono cosi' attratto dal verde, forse perche' dove ho vissuto ce n'e' sempre stato poco, fatto sta che appena mi trovo in un posto che di verde ne ha disegnata anche solo una pennellata, mi ci fiondo. Ancora dalle parti di Green Park a Londra, ricordano con terrore un giovincello che correva palla al piede spaventando bimbi e piccioni!

Central Park: il cuore di una Manhattan che non sta ferma neanche quando si rilassa. Un fiume impressionante di persone che corrono, chi in canotta, chi sculettando, chi affibbiato come un esquimese a Natale. Tutti che corrono. Chi verso destra, chi verso sinistra, chi verso il laghetto, chi verso le viscere del parco. Quasi mi sembrava di riuscire a sfiorare per un attimo i pensieri delle persone. Ognuno con una storia tutta sua, ognuno con problemi che chissa' mai non avrebbero potuto trovare una soluzione all'ombra di qualche albero. Riuscivo a sfiorare i loro pensieri che pero' lesti svanivano quando l'incrocio finiva e la gente si perdeva nel verde.
Mentre passeggiavo mi sono imbattuto in una coppia di scoiattoli che zompettavano sul prato. E a quegli scoiattoli devo dire grazie. Grazie per avermi fatto scordare, anche solo per una decina di minuti, i problemi che mi sono caduti a valanga in meno di due giorni. La consapevolezza di star cominciando un'avventura forse piu' grande di me (cosi' urla lei) ma di non voler mollare (cosi' urlo io). La preoccupazione di non saper dove andare a dormire dopodomani, dato che il mio ostello e' prenotato per una notte ancora. Il sollievo di pensare che forse, se cambio ostello, non posso che migliorare, vista la gente che ho incontrato nel primo. Ma sopratutto, quella brutta sensazione che si ha quando ci si sente soli, in un mondo troppo grande per noi.
Se ho scoperto una cosa, dopo 23 anni grazie a New York, e' di avere un fratello. Sembra una banalita', ma le persone - specie quelle care - ti rendi conto di averle vicine quando sei lontano e loro fanno fatica a starti vicino. Fanno fatica si, ma non mollano. E credo che senza mio fratello, i contorni di questa avventura sarebbero stati ancora piu' duri.
Appoggiato alla ringhiera davanti allo splendido lago nel mezzo del parco, pensavo anche ai miei genitori, forse ormai troppo vecchi per stare dietro i sogni del figlio minore. Pensavo che loro, materialmente non avrebbero saputo come aiutarmi senza Andrea (mio fratello). Non capiscono molto di vita all'estero e devono combattere gia' con tanti problemi nel quotidiano... pensare ad un figlio oltreoceano non e' per nulla facile, anzi una preoccupazione in piu'. E lo sentono. Lo avvertono ed io di conseguenza. Diecimila telefonate al giorno, tante ricariche tempestive del cellulare, mi stanno vicino come possono. Ma la loro frustrazione nel non sapermi aiutare a cercare un appartamento, nel non saper come convincere il mio tutor aziendale a darmi un mano, nel non saper anche solo come bloccarmi un ostello per una settimana di fila, la sento sulla mia pelle. E mi piange il cuore. A mio fratello l'ennesimo compito: asciugare le lacrime di mia madre e rincuorare mio padre. La prima, spaventata a morte per il "suo bambino", il secondo, uomo che si e' visto cancellare tutto d'un colpo le recenti turbolenze col sottoscritto, giocoforza.

All'ombra di un albero, in mezzo alla gente che correva veloce, fissavo i riflessi dei grattacieli di Manhattan sull'acqua. Quell'acqua magica dal quale sembrava nascere un mondo intero. Il sole ormai aveva timbrato il biglietto e stava andando a riposare, mentre io confermavo i miei sospetti. No, New York proprio non mi stava aspettando ed una volta arrivato non mi stava neanche degnando di uno sguardo. Ma a me piace credere che forse, mi stava spiando nascosta dietro qualche foglia in attesa della mia prossima mossa, per vedere se la merito davvero. Per vedere se riusciro' a crescere con la citta' e togliermi i panni del "troppo piccolo" in un mondo "troppo grande". In fondo, se proprio si vuole, Central Park si gira tutta in poco tempo. E Central Park, altro non e' che New York, nascosta in un magico filo d'erba.

Enricuzzu

(nella foto) Central Park, Manhattan (NY)

giovedì 11 settembre 2008

September 11th, 2001


Ricordo che quel giorno stavo giocando a ping pong con Gianluca. C’era un po’ di vento e la pallina spesso andava per i fatti suoi. Dovevo studiare per prepararmi bene al quarto anno di liceo che bussava alle porte, ma non me ne fregava nulla. Quel giorno come tanti altri, l’unico problema della mia vita era riuscire a fare quella battuta imprendibile ad effetto. E fregare il vento.
Mia mamma mi chiamò dal terrazzo ed io feci finta di nulla. Diceva che in TV stavano facendo qualcosa di strano. Mi richiamò e brontolai. Salii con Gianluca e mi portai dietro la racchetta. “Tanto scendiamo subito”, pensai.
Bevetti un bicchiere d’acqua e accesi la TV. Vidi macchine della polizia, gente che correva. Cambiai canale, ma facevano sempre la stessa cosa, sempre New York inquadrata. “Che ampia scelta di programmi!” esclamai ironico continuando a cambiare. Poi lo vidi. Vidi un ragazzo che si lanciava nel vuoto da un palazzo in fiamme. Non so come, ma sentii le sue urla dentro me. Mi si gelò il sangue. Un brivido ghiacciato mi percosse la schiena e mi arrivò alla mano, facendo crollare la racchetta a terra. In un lampo capii tutto. Quel giorno, in cui il mio unico problema era come colpire bene la pallina, era l’11 Settembre 2001.

Duemilanovecentonovantadue morti. Scrivere il numero non rende per nulla. Lo si deve leggere per esteso, lentamente, e provare quel retrogusto amaro, per ricordare l’entità del dramma. Quel dramma che mise nuovamente il mondo davanti la sua coscienza. Quel dramma che sancì per l’ennesima volta la sconfitta dell’uomo su se stesso. La sconfitta di una Nazione, l’America, che ha pagato con la vita della sua gente le colpe di chi si vergogna ad ammettere di aver sbagliato. La sconfitta di un popolo, quello islamico radicale, che uccide due volte con la stessa mano: quando leva la vita agli uomini e quando infanga la religione gridando al suo nome. La sconfitta di un pianeta intero, che si è affrettato a schierarsi dall’una o dall’altra parte, senza chiedersi veramente il perché di tutto, almeno per un attimo.
Quell’attimo, e forse qualcosa in meno, che hanno avuto le persone a bordo degli aerei andando incontro al loro destino. Quell’attimo, che hanno avuto quelle altre persone il cui destino se lo sono visti schiantare in faccia. Un attimo per chiedersi perché. Un attimo per chiudere gli occhi. Un attimo per pregare.
Duemilanovecentonovantadue attimi. Così, tutto d’un fiato, persi in una lacrima, che a distanza di sette anni non va dimenticata.

Spensi il televisore. La racchetta mi guardava da terra allontanarmi verso la porta di casa. Uscii nel terrazzo e mi affacciai al balcone senza dire una parola. Una goccia mi sfiorò la guancia. Alzai gli occhi e vidi il cielo piangere. Era arrivato l’11 Settembre anche da me.

Enricuzzu

martedì 9 settembre 2008

Enricuzzu a stelle e strisce


Era un poster un po’ sgualcito. Appeso al muro, probabilmente per nascondere qualche crepa. Ma quando lo guardavo, da piccolino, alle crepe non pensavo proprio. C’era disegnata la Statua della Libertà, il cielo, è un po’ di verde. Io chiudevo gli occhi e sorridevo. Neanche il tempo di accorgermene ed avevo messo piede negli Stati Uniti, uno dei sogni nascosti nel cassetto del mio cuore.
Bastava poco però per riportarmi alla realtà. Spesso anche solo un soffio di vento sulle guance. Ero di nuovo a Palermo, disteso nel letto della mia stanzetta. E forse tiravo un respiro di sollievo. Già perché da piccolino, Palermo proprio non volevo lasciarla. Avevo paura di mollare tutte quelle ancore, sentimentali e non, che mi tenevano inchiodato alla mia terra.
Quel poster era magico proprio per quello. Perché raggiungevo i miei luoghi stupendi dalla mia stanzetta. Poi un giorno, qualche anno più tardi, decisi che quelle ancore andavano sganciate. Una ad una, magari con qualche lacrima in mezzo. E cominciai a nuotare da solo, non ancora maggiorenne verso Milano (scherzo, ho preso l’aereo!). Oggi, stacco l’ennesima, pesantissima, ancora. Ho deciso di smettere di sognare, aprire gli occhi e afferrare il mio sogno. Il 16 Settembre un aereo mi porterà prima a Londra e poi al JKF di New York City.

Quasi 3 mesi sul suolo americano per un’opportunità irrinunciabile. Uno stage che mi son cercato da solo, che volli fortissimamente volli; un simpatico imprenditore, Marcello, che mi ha dato virtualmente la mano e mi ha detto: com’on, ti aspetto. Così, semplicemente. Ed io così, semplicemente, sto saltando l’oceano. Senza attualmente avere la benché minima idea di dove andrò a vivere ma con l’idea di ciò che dovrò fare. Un mazzo grosso così. Aiutare Marcello e la sua azienda, cooperare con l’azienda di mio fratello per aprire una porta di business a New York, trovare un lavoretto part-time la notte per mantenermi, studiare per due esami che a Dicembre non potrò fallire e cominciare la tesi. Tutto in 90 giorni. Tutto tecnicamente impossibile. Come mi hanno detto, meravigliati, oltreoceano. Già perché vengo a scoprire anche che loro, gli americani, organizzano tutto prima, non lasciano mai nulla al caso. Noi italiani invece, storicamente, prima ci lanciamo nel vuoto e poi controlliamo di avere il paracadute allacciato. Come quel mio amico che è volato in Australia, senza uno straccio di certezza, andando a tagliare pomodori in un campo per avere qualche spicciolo.

Ed io, ancora più di ieri, oggi mi sento italiano. Di quelli folli. Di quelli che hanno capito che a volte, i nostri sogni ci mettono alla prova per vedere fin dove saremmo in grado di arrivare per raggiungerli. Perché a volte i sogni ti capitano volutamente nei momenti più difficili da gestire. Perché a volte i sogni ti passano vicini sorridendoti ma tu non hai il coraggio di lanciarti per afferrarli.
Sono passati oltre 10 anni da quando sognavo guardando quel poster. Oggi il tempo dei sogni è finito. E’ tempo di aprire gli occhi e lanciarsi nel vuoto. E chi se ne fotte se non ho il paracadute.

Special Thanks: un ringraziamento particolare a Francesca, che quel pomeriggio in Università, fra un libro ed un cappuccino, mi ha spinto verso questa follia.

Enricuzzu