lunedì 10 dicembre 2012

Rams è abbastanza davvero?

Bresso (MI),
December 1st, 2012

XXXIII Superbowl FIF
Rams Milano - Bengals Brescia 22-16

Rams is enough. Rams è abbastanza. Ma è abbastanza davvero? Mi faccio questa domanda ogni maledetta partita, prima del kickoff. Sarà abbastanza avere una maglia verde e delle corna sul casco per essere meritevole di essere un Rams? Non ne voglio fare una questione altamente morale ma una dannatamente pratica. Quando un avversario scappa in touchdown seguendo la scia di quel placcaggio che avete mancato, siete davvero in pace con la vostra coscienza? Io, che di placcaggi ne ho sicuramente mancati molto più di quelli che ho fatto, mi sento una merda. Non per aver fallito nel gesto singolo, perchè ho la serenità nel pensare che posso e devo ancora migliorare tanto, ma perchè quel touchdown non l’ho subito solo io. L’ha subito il compagno vicino a me. L’ha subito tutta la Difesa. L’ha subito l’Attacco in panchina. L’hanno subito Big e Randy. L’ha subito Tiziana. L’hanno subito i nostri tifosi che spesso trattano con indifferenza qualsiasi condizione atmosferica per star li con noi. E l’hanno subito perchè io, per un attimo, ho pensato che non era così importante.

E allora mi chiedo, Rams è abbastanza? No, non è abbastanza se non vuoi portarti – cucita nella stessa maglia – anche la responsabilità che dalle tue azioni, anche le più piccole, dipende il successo dei tuoi compagni e viceversa. No, non è abbastanza se non finisci la partita fisicamente e mentalmente stremato per uno sforzo che ha superato i tuoi limiti. Sia che quello sforzo tu possa spalmarlo in più e più azioni, sia che sia costretto a bruciarlo in poche. Come è capitato a me al SuperBowl contro i Bengals. Rams era abbastanza per sentirmi campione insieme ai miei compagni anche se il mio contributo è stato limitato? Ci ho pensato spesso, fin troppo, nei giorni seguenti. Forse dimenticandomi l’anima che ho messo in quelle azioni. Azioni che ho sentito passo dopo passo, portandomi dietro la scia di sudore vissuta contro i Black Horses e contro i Lancieri. E prima ancora contro I Bobacts, i Blacks, i Frogs, i Warriors, i Wolfpack e tutte le squadre affrontate nella mia vita nel Football. Al fischio finale ero fisicamente e mentalmente stremato, ho alzato gli occhi al cielo per un mio personale ringraziamento e sono tornato in maglia verde. Si, quel giorno Rams era davvero abbastanza. E voglio che lo sia davvero per tantissimo altro tempo.

sabato 17 novembre 2012

Quella sediolina, un anno dopo.

Milano (Italy),
November 17th

Mondello (PA)
Quella sediolina la ricordo perfettamente. Piegevole, alta, simile a quelle da regista. Maledettamente scomoda ho sempre creduto, per uno come me che, se in spiaggia non era immerso in qualche scorribanda estiva, per il riposo preferiva spiaggiarsi sulla sabbia a peso morto. Ma tu ti ci trovavi benissimo, quasi fosse un'appendice del tuo stesso corpo. Gamba accavallata, occhiali da sole (alcuni - non ti incazzare - davvero inguardabili) e pipa in bocca. Da quel trono guardavi negli occhi Mondello con un'aura particolare. Ti facevi notare anche stando fermo ed il fiume di persone che passava di li, non si risparmiava mai un saluto. "Ciao Pippo!", donne, uomini, italiani, stranieri, anziani, bambini... ed io avevo sempre la faccia del cretino che si chiedeva "Ma quante persone lo conoscono?" e proprio per questo, tra il geloso e l'ammirato, evitavo di salutarti quando ti sfrecciavo accanto per andare a giocare col pallone. Per gli altri era quasi un onore conoscerti, per me una banalità. Il ciao era una parentesi superflua. Tanto, ad ogni modo, sapevo che eri sempre la, gamba accavallata, occhiali da sole e pipa in bocca.

Da quella sediolina mi guardavi, mi sorvegliavi, a tuo modo giocavi con me. E ti piegavi dalle risate quando combinavo qualche minchiata. Una rovesciata accidentale in faccia a qualche turista, un tentato approccio a qualche ragazzina o un tuffo di panza dal pedalò. Non importava cosa combinassi, sapevo che eri li e da lontano cercavo i tuoi occhi. Mi bastavano quelli, dato che parlavamo poco. Mi son sempre bastati quelli per capire se avevo la tua approvazione o no, da uno sguardo nero che mi doveva far riflettere. Nella vita il rispetto lo guadagna solo chi lo da e tu te lo sei sempre guadagnato, non solo con me, con quell'amore silenzioso di chi fa al posto di parlare.

Gamba accavallata e pipa in bocca. Fortunatamente la sera lasciavi gli occhiali da sole a casa, con il benestare degli occhi altrui. Ma la posizione non cambiava. Stavi così anche all'Arena dello Zio, seduto nello stesso posto del lato sinistro della fila centrale a guardare l'ultimo film d'azione. In quelle sere a volte il tuo grado di attenzione verso di me calava un pò e calavano anche i baffetti, a disegnare uno sguardo velatamente triste che da piccolo non sono mai riuscito ad interpretare. Te ne stavi li a pensare un pò a tutto, alla tua e alla nostra vita, prendendo decisioni importanti da solo - tra una Coca Cola ed un Magnum - perchè da solo avvertivi il carico delle responsabilità. E' in quei momenti che avrei voluto essere grande, per starti vicino e non farti sentire solo. Per farti capire che anche la tua famiglia voleva essere per te quello che tu eri per la tua famiglia. Un porto sicuro dove approdare. Una sediolina piegevole dove sedersi e riposarsi. Ma, purtroppo, il tempo mi ha dato troppe poche occasioni...

Oggi è passato un anno da quando te ne sei andato papà e ancora la sera qualche lacrima mi solca il viso. Ci sono tante cose che avrei voluto raccontarti e farti vivere della mia vita, come le soddisfazioni lavorative o la famiglia che sto facendo con chi amo. O come il Football, quella grande folle avventura intrapresa qualche anno fa che mi ha fatto trovare una banda di fratelli nuovi che mai avrei pensato. Uno sport che, come la vita, ti insegna a conquistare i tuoi obbiettivi centimetro dopo centimetro, soffrendo e gioendo per la tua famiglia come la tua famiglia soffre e gioisce per te. Ma non sono triste. Perchè se anche non posso raccontartelo sono sicuro che tu lo possa vedere da te, esattamente come hai sempre visto tutto in passato. Ti vedo li, sulla porta del touchdown, nitido, quando alzo il caso. Gamba accavallata, occhiali da sole e pipa in bocca. E ti sento vicino. Dentro di me come non lo sei stato mai.

Foto by Francesca Meana - Sito Web

domenica 25 marzo 2012

"Temporaneamente tua", pensieri di chi fa la puttana ma puttana non è.

Prostituzione per costrizione, prostituzione per miseria, prostituzione per mille e più motivi. A volte anche per scelta. "Temporanamente tua" ci racconta un mondo che troppo spesso abbiamo la presunzione di giudicare senza conoscerne i connotati. Ragazze ferme agli angoli della strada, alle prese con dei sogni più grandi di loro, che sfrecciano veloci, lasciandole sole contro la realtà. La realtà di un mondo che pretende più di quanto riesce a dare, costringendo tutti a seguire una rigida morale comune anche a costo di stridere con l'onestà intellettuale. L'immigrata rumena, la sensuale americana o l'escort italiana si alternano sul palco con in comune delle scarpette rosse che illuminano la scena e ricordano il colore del cuore di chi - come vien recitato - fa la puttana, ma puttana non è.

Attrice poliedrica Greta Zamparini, scena e regia (con Federica Bognetti) dell'opera. Capace di alternare accento rumeno e cadenza anglo-italiana, di ballare e "bucare" il pubblico, interagendo con esso. Parola di chi vi sta scrivendo proprio queste righe, attore involontario della scena, con in mano un caffè abbondamentemente zuccherato di imbarazzo.

Credete sia facile recitare una parte come questa per un'oretta o poco più? Allora andate in strada a trovare le ragazze nei marciapiedi con i volontari del progetto Segnavia dei Padri Somaschi, andate a conoscerle, a bere con loro un bicchiere di the. Fatelo per sei mesi, senza chiedere nulla in cambio, provando ad entrare in degli occhi così lontani da voi dal sembrare irraggiungibili. Fatelo con ognuna di loro, di quel lunghissimo elenco di ragazze proiettato alla fine. Nomi veloci che nascondono singole, importanti, storie. Ciò che ne uscirà fuori sarà un fantastico viaggio dentro un mondo difficile ma in grado di insegnare molto.

Se non avete tutto questo tempo invece... beh, basta fare un salto all'Areapergolesi di Milano. Non ci saranno decine di attori né una platea infinita, ma sicuramente ci sarà una bella serata. Quel tanto che basta per sfiorare un mondo a noi lontano e per sentirti vicini a quelle scarpette rosse. Almeno per un'oretta o poco più.

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giovedì 1 marzo 2012

Jonah, non mollare.

Auckland (New Zealand),
March 1st

Quando lo conobbi meno di anno fa a Milano mi apparve davanti in aula come l'ho sempre visto in Tv: alto, possente, enorme. Non fu la sua mole a placcarmi disorientandomi però, ma la sua semplicità. Un sorriso per tutti e una vita spiegata con parole semplici, senza tanti giri. "Ho una malattia, ma questo lo sapete già" disse con tranquillità, esattamente come io direi di avere un raffreddore. Solo che la nefrite non è un raffreddore. E' qualcosa di un pò più serio. Qualcosa che ti divora i reni, ti costringe a tre sedute di dialisi a settimana e ti distrugge gambe e braccia. Jonah non si abbattè e sembra passata una vita da quel trapianto di reni nel 2004 che sembrava aver messo la parola fine a questa battaglia. E invece no...

Quel rene maledetto è tornato oggi a combattere contro Jonah, e forse lui, dietro il sorriso rassicurante che ha sempre regalato, se lo aspettava. Quasi trenta chili persi in poche settimane nell'immobibilità di un fisico che è stato abituato a dominare avversari in tutto il mondo e che ora si trova placcato, nel letto di un ospedale di Auckland. Io che scrivo, praticando uno sport di simile durezza, so quanta grinta ci sia nel cuore di chi non vuole smettere di combattere. Ma so altrettanto, da figlio, quanto sia tremendo combattere contro un avversario che ti abbatte da dentro, senza guardarti in faccia, e ti spegne giorno dopo giorno quella luce che hai sempre avuto negli occhi.

"Prima o poi tutti dobbiamo morire" dicono le parole di Jonah, riportate da Repubblica. Lo sguardo triste, di un uomo che sa che la partita ora diventa veramente difficile. La Nuova Zelanda piange per il suo più giovane All Black di sempre (appena 19enne quando vestì la celebre maglia nera) e si stringe attorno a lui. Io mi rifiuto di credere che a distanza di un anno, le cose cambino così in fretta, ma lancio il mio urlo oltreoceano: Jonah, non mollare. Un giorno lasceremo tutti questa vita terrena per andare incontro a qualcosa di più grande, ma di un lungo viaggio non conta la fine, bensì il modo in cui lo si vive. Jonah, non mollare. In questa mischia tremenda stavolta sei da solo, ma tutti noi sugli spalti siamo con te.