New York City,
December 10th
Quella sera non faceva freddo fuori. Ma io dentro gelavo. Senza un perché. Probabilmente per quel dannatissimo pasto scaduto sull’aereo che mi era stato letale. Nella stanza c’erano otto letti, neanche fosse una camerata. Tutti occupati. Della comitiva probabilmente ero l’unico non strafatto. Mi guardavano con quei mezzi sguardi che ti fanno sentire osservato come una cavia in laboratorio. Lei – l’unica ragazza del gruppo – seminuda, mi chiede se per me è un problema se si spoglia in stanza. Così, senza neanche un ciao come va. La guardo e le rispondo che al massimo posso mettermi il cuscino in faccia. Sorrido. Mi guardano tutti un paio di secondi e poi scoppiano a ridere.
Ricordo quella prima notte a New York come uno dei giorni più brutti della mia vita. Devastato da chissà quale virus, solo nel letto, in mezzo a loro. Abbracciato al computer nella paura che potessero sgamarmelo notte tempo. La valigia non preoccupava; era troppo pesante anche per un gorilla. Il display del cellulare scarico si spegneva lentamente consigliandomi di imitarlo.
Ricordo il senso di impotenza che mi attanagliava lo stomaco quella notte. Quel senso che mi faceva capire di essere solo dall’altro lato del mondo e di dovermela cavare senza aiuti. Quel senso che ti genera la fame. La fame che ti genera il senso di sopravvivenza. In quella città dove se cadi la gente non solo ti ignora, ma ti passa anche sopra calpestandoti.
Ricordo i posti dove ho dormito. Ora un letto fra otto, ora un divano da amici, ora addirittura un pavimento con piumone e cuscino.
Ricordo quella sera passata a passeggiare tra le vie di Manhattan con la valigia in mano, cercando dove avrei dovuto dormire quella volta.
Ricordo quella stanza doppia al Residence YMCA con Erkan, che dava una svolta a tutta l’avventura, nel segno di lenzuola, piumone e due cuscini dicasi due.
Ricordo il primo giorno di lavoro a Brooklyn col mio Boss.
Ricordo il profumo dei ravioli freschi che commercializzavo, dandogli una mano.
Ricordo come quei ravioli erano fatti a mano come piccoli segreti da chi non aveva bisogno di una cartolina per vedere l’Italia.
Ricordo quel ponte lunghissimo che lasciava tre metri sopra il fiume tutte le sue opportunità in attesa che qualcuno le cogliesse.
Ricordo Sheena e Shing, le prime due ragazze che ho conosciuto, con cui ho capito di non essere solo, neanche in un mondo aldilà dell’oceano.
Ricordo la valanga di gente conosciuta dopo.
Ricordo quelle persone che mi hanno voluto bene, seppur consapevoli di incrociare la mia vita solo per istante.
Ricordo l’erba di Central Park, il cui profumo era profondissimo nelle mie narici quando preparavo l’esame forse più importante della mia vita.
Ricordo la faccia dei newyorkesi accanto a me quando mi misi a saltare all’impazzata ricevuto l’esito positivo.
Ricordo il sorriso con il quale davo informazioni per strada, su una città che dopo avermi messo alla prova aveva fatto poca fatica ad entrarmi nel taschino.
Ricordo il sorriso dell’impiegato dello Starbucks Coffee quando ogni mattina, senza neanche dover dire una parola, mi preparava il Frappuccino facendomi sentire uno di casa.
Ricordo il sorriso che mi cancellai dalle labbra quando un simpatico amico di due metri mi rispose incazzato alla domanda “Where am I?” - “The Bronx”.
Ricordo il display del cellulare che si illuminava un numero imprecisato di volte al giorno, per farmi capire che mio fratello solo non mi lasciava.
Ricordo sempre lo stesso display dello stesso cellulare che si illuminava anche la notte per farmi capire che i miei genitori non erano da meno del fratellone.
Ricordo le folli notti in discoteca che si spegnevano con la luce del sole.
Ricordo le spallate pesantissime che mi davano gli americani per insegnarmi il basket.
Ricordo gli insulti che mi lanciavano quando insegnavo io come la palla da calcio che passa fra le gambe si chiama ‘tunnel’.
Ricordo tutto il Madison Square Garden in piedi a cantare l’inno nazionale, mani sul cuore, prima della partita dei Knicks.
Ricordo quel tacchino enorme nel Giorno del Ringraziamento messo al centro della tavola.
Non ricordo quante porzioni ne feci fuori.
Ricordo le facce sognanti dei ragazzi che in piazza mi fermavano e mi davano i volantini con la faccia altrettanto sognante di Barack Obama. Gente che prediva il futuro.
Ricordo il silenzio surreale di Ground Zero.
Ricordo la pioggia fitta del Queens.
Ricordo Lady Liberty che mi guardava sinuosa da lontano.
Ricordo la lacrima che l’oceano di Coney Island sta ancora custodendo per me.
Ricordo l’abbraccio fortissimo, quasi schiacciante, di chi mi ha salutato il giorno della partenza.
Ricordo la lacrima che non tirai fuori e che mi cadde dentro il cuore.
Ricordo quelle nuvole nelle quali si infilò lento il Boeing che mi avrebbe riportato a casa.
Ricordo quei mesi americani trascorsi come se fossero un lunghissimo respiro.
Ricordo il quarto di dollaro con cui giocavo all’aeroporto di Londra.
Ricordo lo sguardo perso nel vuoto.
Ricordo “Ehi man… what’s wrong?” – “Nothing. I’m coming back home.”
Qualche giorno dopo, mentre il cuscino gioca ad abbracciare la mia testa, in televisione raccontano come il Comandante “Sully” ha preso un Jet con due motori scoppiati e lo ha fatto ammarare nel fiume Hudson. Alzo gli occhi. Guardo quella gente nello schermo. Vedo gli abbracci sullo sfondo dei grattacieli. Guarda cos’è successo nella mia New York, penso. Gli amici accanto a me, sapendo della mia anima prettamente californiana, mi fanno notare il “possessivo” sorridendo. La mia New York. Sorrido anche io. Sono partito col corpo ma non ancora con l’anima. E probabilmente non partirò mai. Perché seppur il futuro mi riserverà altri angoli del mondo, quei grattacieli, quella gente, quella City mi resteranno per sempre dentro. A un passo dal cuore. Perché un sogno – se è davvero immenso come il mio a stelle e strisce – non può finire mai. Può soltanto essere messo in pausa.
Enricuzzu
December 10th
Quella sera non faceva freddo fuori. Ma io dentro gelavo. Senza un perché. Probabilmente per quel dannatissimo pasto scaduto sull’aereo che mi era stato letale. Nella stanza c’erano otto letti, neanche fosse una camerata. Tutti occupati. Della comitiva probabilmente ero l’unico non strafatto. Mi guardavano con quei mezzi sguardi che ti fanno sentire osservato come una cavia in laboratorio. Lei – l’unica ragazza del gruppo – seminuda, mi chiede se per me è un problema se si spoglia in stanza. Così, senza neanche un ciao come va. La guardo e le rispondo che al massimo posso mettermi il cuscino in faccia. Sorrido. Mi guardano tutti un paio di secondi e poi scoppiano a ridere.
Ricordo quella prima notte a New York come uno dei giorni più brutti della mia vita. Devastato da chissà quale virus, solo nel letto, in mezzo a loro. Abbracciato al computer nella paura che potessero sgamarmelo notte tempo. La valigia non preoccupava; era troppo pesante anche per un gorilla. Il display del cellulare scarico si spegneva lentamente consigliandomi di imitarlo.
Ricordo il senso di impotenza che mi attanagliava lo stomaco quella notte. Quel senso che mi faceva capire di essere solo dall’altro lato del mondo e di dovermela cavare senza aiuti. Quel senso che ti genera la fame. La fame che ti genera il senso di sopravvivenza. In quella città dove se cadi la gente non solo ti ignora, ma ti passa anche sopra calpestandoti.
Ricordo i posti dove ho dormito. Ora un letto fra otto, ora un divano da amici, ora addirittura un pavimento con piumone e cuscino.
Ricordo quella sera passata a passeggiare tra le vie di Manhattan con la valigia in mano, cercando dove avrei dovuto dormire quella volta.
Ricordo quella stanza doppia al Residence YMCA con Erkan, che dava una svolta a tutta l’avventura, nel segno di lenzuola, piumone e due cuscini dicasi due.
Ricordo il primo giorno di lavoro a Brooklyn col mio Boss.
Ricordo il profumo dei ravioli freschi che commercializzavo, dandogli una mano.
Ricordo come quei ravioli erano fatti a mano come piccoli segreti da chi non aveva bisogno di una cartolina per vedere l’Italia.
Ricordo quel ponte lunghissimo che lasciava tre metri sopra il fiume tutte le sue opportunità in attesa che qualcuno le cogliesse.
Ricordo Sheena e Shing, le prime due ragazze che ho conosciuto, con cui ho capito di non essere solo, neanche in un mondo aldilà dell’oceano.
Ricordo la valanga di gente conosciuta dopo.
Ricordo quelle persone che mi hanno voluto bene, seppur consapevoli di incrociare la mia vita solo per istante.
Ricordo l’erba di Central Park, il cui profumo era profondissimo nelle mie narici quando preparavo l’esame forse più importante della mia vita.
Ricordo la faccia dei newyorkesi accanto a me quando mi misi a saltare all’impazzata ricevuto l’esito positivo.
Ricordo il sorriso con il quale davo informazioni per strada, su una città che dopo avermi messo alla prova aveva fatto poca fatica ad entrarmi nel taschino.
Ricordo il sorriso dell’impiegato dello Starbucks Coffee quando ogni mattina, senza neanche dover dire una parola, mi preparava il Frappuccino facendomi sentire uno di casa.
Ricordo il sorriso che mi cancellai dalle labbra quando un simpatico amico di due metri mi rispose incazzato alla domanda “Where am I?” - “The Bronx”.
Ricordo il display del cellulare che si illuminava un numero imprecisato di volte al giorno, per farmi capire che mio fratello solo non mi lasciava.
Ricordo sempre lo stesso display dello stesso cellulare che si illuminava anche la notte per farmi capire che i miei genitori non erano da meno del fratellone.
Ricordo le folli notti in discoteca che si spegnevano con la luce del sole.
Ricordo le spallate pesantissime che mi davano gli americani per insegnarmi il basket.
Ricordo gli insulti che mi lanciavano quando insegnavo io come la palla da calcio che passa fra le gambe si chiama ‘tunnel’.
Ricordo tutto il Madison Square Garden in piedi a cantare l’inno nazionale, mani sul cuore, prima della partita dei Knicks.
Ricordo quel tacchino enorme nel Giorno del Ringraziamento messo al centro della tavola.
Non ricordo quante porzioni ne feci fuori.
Ricordo le facce sognanti dei ragazzi che in piazza mi fermavano e mi davano i volantini con la faccia altrettanto sognante di Barack Obama. Gente che prediva il futuro.
Ricordo il silenzio surreale di Ground Zero.
Ricordo la pioggia fitta del Queens.
Ricordo Lady Liberty che mi guardava sinuosa da lontano.
Ricordo la lacrima che l’oceano di Coney Island sta ancora custodendo per me.
Ricordo l’abbraccio fortissimo, quasi schiacciante, di chi mi ha salutato il giorno della partenza.
Ricordo la lacrima che non tirai fuori e che mi cadde dentro il cuore.
Ricordo quelle nuvole nelle quali si infilò lento il Boeing che mi avrebbe riportato a casa.
Ricordo quei mesi americani trascorsi come se fossero un lunghissimo respiro.
Ricordo il quarto di dollaro con cui giocavo all’aeroporto di Londra.
Ricordo lo sguardo perso nel vuoto.
Ricordo “Ehi man… what’s wrong?” – “Nothing. I’m coming back home.”
Qualche giorno dopo, mentre il cuscino gioca ad abbracciare la mia testa, in televisione raccontano come il Comandante “Sully” ha preso un Jet con due motori scoppiati e lo ha fatto ammarare nel fiume Hudson. Alzo gli occhi. Guardo quella gente nello schermo. Vedo gli abbracci sullo sfondo dei grattacieli. Guarda cos’è successo nella mia New York, penso. Gli amici accanto a me, sapendo della mia anima prettamente californiana, mi fanno notare il “possessivo” sorridendo. La mia New York. Sorrido anche io. Sono partito col corpo ma non ancora con l’anima. E probabilmente non partirò mai. Perché seppur il futuro mi riserverà altri angoli del mondo, quei grattacieli, quella gente, quella City mi resteranno per sempre dentro. A un passo dal cuore. Perché un sogno – se è davvero immenso come il mio a stelle e strisce – non può finire mai. Può soltanto essere messo in pausa.
Enricuzzu