Ricordo che quel giorno stavo giocando a ping pong con Gianluca. C’era un po’ di vento e la pallina spesso andava per i fatti suoi. Dovevo studiare per prepararmi bene al quarto anno di liceo che bussava alle porte, ma non me ne fregava nulla. Quel giorno come tanti altri, l’unico problema della mia vita era riuscire a fare quella battuta imprendibile ad effetto. E fregare il vento.
Mia mamma mi chiamò dal terrazzo ed io feci finta di nulla. Diceva che in TV stavano facendo qualcosa di strano. Mi richiamò e brontolai. Salii con Gianluca e mi portai dietro la racchetta. “Tanto scendiamo subito”, pensai.
Bevetti un bicchiere d’acqua e accesi la TV. Vidi macchine della polizia, gente che correva. Cambiai canale, ma facevano sempre la stessa cosa, sempre New York inquadrata. “Che ampia scelta di programmi!” esclamai ironico continuando a cambiare. Poi lo vidi. Vidi un ragazzo che si lanciava nel vuoto da un palazzo in fiamme. Non so come, ma sentii le sue urla dentro me. Mi si gelò il sangue. Un brivido ghiacciato mi percosse la schiena e mi arrivò alla mano, facendo crollare la racchetta a terra. In un lampo capii tutto. Quel giorno, in cui il mio unico problema era come colpire bene la pallina, era l’11 Settembre 2001.
Duemilanovecentonovantadue morti. Scrivere il numero non rende per nulla. Lo si deve leggere per esteso, lentamente, e provare quel retrogusto amaro, per ricordare l’entità del dramma. Quel dramma che mise nuovamente il mondo davanti la sua coscienza. Quel dramma che sancì per l’ennesima volta la sconfitta dell’uomo su se stesso. La sconfitta di una Nazione, l’America, che ha pagato con la vita della sua gente le colpe di chi si vergogna ad ammettere di aver sbagliato. La sconfitta di un popolo, quello islamico radicale, che uccide due volte con la stessa mano: quando leva la vita agli uomini e quando infanga la religione gridando al suo nome. La sconfitta di un pianeta intero, che si è affrettato a schierarsi dall’una o dall’altra parte, senza chiedersi veramente il perché di tutto, almeno per un attimo.
Quell’attimo, e forse qualcosa in meno, che hanno avuto le persone a bordo degli aerei andando incontro al loro destino. Quell’attimo, che hanno avuto quelle altre persone il cui destino se lo sono visti schiantare in faccia. Un attimo per chiedersi perché. Un attimo per chiudere gli occhi. Un attimo per pregare.
Duemilanovecentonovantadue attimi. Così, tutto d’un fiato, persi in una lacrima, che a distanza di sette anni non va dimenticata.
Spensi il televisore. La racchetta mi guardava da terra allontanarmi verso la porta di casa. Uscii nel terrazzo e mi affacciai al balcone senza dire una parola. Una goccia mi sfiorò la guancia. Alzai gli occhi e vidi il cielo piangere. Era arrivato l’11 Settembre anche da me.
Enricuzzu
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