Flushing, Queens (NY),
October 24th
E’ un tranquillo Giovedì di fine Ottobre quando, in una New York intenta a prestare un occhio a Obama ed un orecchio a McCain, si sparge la notizia così sottovoce che quasi nessuno se ne accorge. Ad un mese e mezzo di distanza dal suo primo piede in territorio a stelle e strisce, Enricuzzu trasloca.
Come un perfetto newyorker annoiato, figlio della City, ho deciso che era l’ora di lasciare il delizioso East Village di Manhattan. Anche perché l’altrettanto delizioso appartamentino del mio Boss era diventato troppo stretto da quando, vastasamente, mi sono infilato a scrocco approfittando della sua generosità. E cosi, in direzione Flushing, nel Queens, dove mi aspetta il YMCA Residence, ci ritroviamo in due, su quella subway. Io e quell’infame traditrice della mia valigia. Una figura ormai dotata di vita propria, capace di ingrassare inspiegabilmente a vista d’occhio. Lei – la pacchionazza – che ha messo da sola in crisi un Boeing della British Airways, costretto a volare sopra l’oceano piegato di lato per controbilanciare il suo peso. Lei, a cui ogni volta devo inventare entrate secondarie in subway, dato che la sua silhoutte non le permette di entrare come tutti i cristiani dalle entrate convenzionali.
Dopo uno smisurato numero di fermate, la linea 7 della subway arriva finalmente al capolinea. Quando esco a riveder le stelle, mi fermo impietrito. La “pacchionazza” mi guarda dubbiosa come a volermi chiedere dove siamo finiti. E in effetti, tutti i torti non ha. Se prendete un turista infatti, gli vendete un volo per la Grande Mela e lo portate bendato da queste parti, state certi che rivorrà i soldi indietro, accusandovi di aver detto New York, non Seoul in Korea. Ed invece, ironia della sorte, Flushing, frazione del Queens è ancora New York a tutti gli effetti.
Le centinaia di insegne luminose, in rigorosi ideogrammi koreani, ti stordiscono. Le numerose agenzie di viaggio presenti in zona promuovono low-cost convenientissimi: “da New York a Seoul in un batter d’occhio”. Probabilmente nel senso che per quanto batti gli occhi, in Korea qua ti ci senti per davvero. E neanche devi pagare.
A differenza di Chinatown a Manhattan, dove sembra di trovare americani che giocano a fare i cinesi però, la Korea Town del Queens sembra molto più reale. Qua nessuno fa finta, sono davvero koreani capitati per sbaglio negli USA. Qua qualcosa in koreano la devi imparare per forza se non vuoi essere fregato. Come stava capitando a me all’entrata nel primo fast-food. Dalle insegne - ovviamente - non ci avevo capito una fava, ma mi son fatto guidare da un innato istinto che ha identificato nell’immagine di panino e bibita sulla finestra, un posto dove poter mangiare qualcosa. Non appena varco la porta mi accolgono con una parola che ho capito in seguito significare “ciao” in koreano (che si scrive: 안 녕). Partiamo male. Mi guardano e capiscono dai tratti somatici che, probabilmente, non sono asiatico. Non c’è che dire, delle volpi. A quel punto cominciano a parlare in spagnolo, seconda lingua ufficiale nel Flushing vista la massiccia presenza di ispanici. Io però – pur sapendo parlare un buon spagnolo – mi impunto sulle mie. Siamo a New York? Parliamo inglese. Chiedo cosa c’è di buono nel Menù in lingua anglosassone e mi sento rispondere in prima battuta con un paio di risate, dal proprietario e dai commessi e subito dopo con un “Parli americano? Sei di Manhattan, vero?”. Anche cabarettisti questi koreani. No, sono siciliano – mi vien da rispondere – e se ti do due timpulate internazionali dici che le capiscono anche a Seoul?
Ho realizzato col tempo, dopo averci sbattuto la testa, che qui l’inglese è davvero considerato la terza lingua. Una lingua che – se proprio ci tieni – la gente si adatta a parlare per venirti incontro. Anche se di fatto ti trovi sempre a New York.
All’uscita da quel tutto sommato simpatico bar, mi immergo nelle strade del Flushing dove becco il mio coinquilino turco col quale dividerò la stanza. Con la “pacchionazza” ancora in mano il mio unico pensiero diventa quello di buttarmi al più presto nel letto. “Come troviamo il Residence?” chiedo ad Erkan, che già abita la da un mese. “Tranquillo” – mi risponde – “…è l’unico edificio con l’insegna in Inglese!” scoppiando a ridere. Rido anche io mentre ci immergiamo nelle strade del Flushing. Fra gli ideogrammi luminosi penso a dove mi porterà il futuro lavorativo un domani. L’Asia non è una prospettiva così remota. A quel punto però, gli ideogrammi, o li si impara o li si impara!
C’erano una volta un italiano ed un turco in una New York koreana... sembra una barzelletta. Provate a raccontarla in giro.
Enricuzzu
(nella foto) Il mio panificio di fiducia. PS. Mamma tranquilla, sono davvero a New York, non a Seoul.
October 24th
E’ un tranquillo Giovedì di fine Ottobre quando, in una New York intenta a prestare un occhio a Obama ed un orecchio a McCain, si sparge la notizia così sottovoce che quasi nessuno se ne accorge. Ad un mese e mezzo di distanza dal suo primo piede in territorio a stelle e strisce, Enricuzzu trasloca.
Come un perfetto newyorker annoiato, figlio della City, ho deciso che era l’ora di lasciare il delizioso East Village di Manhattan. Anche perché l’altrettanto delizioso appartamentino del mio Boss era diventato troppo stretto da quando, vastasamente, mi sono infilato a scrocco approfittando della sua generosità. E cosi, in direzione Flushing, nel Queens, dove mi aspetta il YMCA Residence, ci ritroviamo in due, su quella subway. Io e quell’infame traditrice della mia valigia. Una figura ormai dotata di vita propria, capace di ingrassare inspiegabilmente a vista d’occhio. Lei – la pacchionazza – che ha messo da sola in crisi un Boeing della British Airways, costretto a volare sopra l’oceano piegato di lato per controbilanciare il suo peso. Lei, a cui ogni volta devo inventare entrate secondarie in subway, dato che la sua silhoutte non le permette di entrare come tutti i cristiani dalle entrate convenzionali.
Dopo uno smisurato numero di fermate, la linea 7 della subway arriva finalmente al capolinea. Quando esco a riveder le stelle, mi fermo impietrito. La “pacchionazza” mi guarda dubbiosa come a volermi chiedere dove siamo finiti. E in effetti, tutti i torti non ha. Se prendete un turista infatti, gli vendete un volo per la Grande Mela e lo portate bendato da queste parti, state certi che rivorrà i soldi indietro, accusandovi di aver detto New York, non Seoul in Korea. Ed invece, ironia della sorte, Flushing, frazione del Queens è ancora New York a tutti gli effetti.
Le centinaia di insegne luminose, in rigorosi ideogrammi koreani, ti stordiscono. Le numerose agenzie di viaggio presenti in zona promuovono low-cost convenientissimi: “da New York a Seoul in un batter d’occhio”. Probabilmente nel senso che per quanto batti gli occhi, in Korea qua ti ci senti per davvero. E neanche devi pagare.
A differenza di Chinatown a Manhattan, dove sembra di trovare americani che giocano a fare i cinesi però, la Korea Town del Queens sembra molto più reale. Qua nessuno fa finta, sono davvero koreani capitati per sbaglio negli USA. Qua qualcosa in koreano la devi imparare per forza se non vuoi essere fregato. Come stava capitando a me all’entrata nel primo fast-food. Dalle insegne - ovviamente - non ci avevo capito una fava, ma mi son fatto guidare da un innato istinto che ha identificato nell’immagine di panino e bibita sulla finestra, un posto dove poter mangiare qualcosa. Non appena varco la porta mi accolgono con una parola che ho capito in seguito significare “ciao” in koreano (che si scrive: 안 녕). Partiamo male. Mi guardano e capiscono dai tratti somatici che, probabilmente, non sono asiatico. Non c’è che dire, delle volpi. A quel punto cominciano a parlare in spagnolo, seconda lingua ufficiale nel Flushing vista la massiccia presenza di ispanici. Io però – pur sapendo parlare un buon spagnolo – mi impunto sulle mie. Siamo a New York? Parliamo inglese. Chiedo cosa c’è di buono nel Menù in lingua anglosassone e mi sento rispondere in prima battuta con un paio di risate, dal proprietario e dai commessi e subito dopo con un “Parli americano? Sei di Manhattan, vero?”. Anche cabarettisti questi koreani. No, sono siciliano – mi vien da rispondere – e se ti do due timpulate internazionali dici che le capiscono anche a Seoul?
Ho realizzato col tempo, dopo averci sbattuto la testa, che qui l’inglese è davvero considerato la terza lingua. Una lingua che – se proprio ci tieni – la gente si adatta a parlare per venirti incontro. Anche se di fatto ti trovi sempre a New York.
All’uscita da quel tutto sommato simpatico bar, mi immergo nelle strade del Flushing dove becco il mio coinquilino turco col quale dividerò la stanza. Con la “pacchionazza” ancora in mano il mio unico pensiero diventa quello di buttarmi al più presto nel letto. “Come troviamo il Residence?” chiedo ad Erkan, che già abita la da un mese. “Tranquillo” – mi risponde – “…è l’unico edificio con l’insegna in Inglese!” scoppiando a ridere. Rido anche io mentre ci immergiamo nelle strade del Flushing. Fra gli ideogrammi luminosi penso a dove mi porterà il futuro lavorativo un domani. L’Asia non è una prospettiva così remota. A quel punto però, gli ideogrammi, o li si impara o li si impara!
C’erano una volta un italiano ed un turco in una New York koreana... sembra una barzelletta. Provate a raccontarla in giro.
Enricuzzu
(nella foto) Il mio panificio di fiducia. PS. Mamma tranquilla, sono davvero a New York, non a Seoul.