domenica 7 dicembre 2008

Enricuzzexy and the City

Manhattan (NY),
December 6th

L’esperienza newyorkese va quasi sgocciolando via come un Mojito che si appresa a finire. Resta quasi da “succhiare” il ghiaccio che, freddo, sembra anestetizzare un piacere che vorresti non finisse mai. Io rimango con la cannuccia fra le labbra, pensando che qualche mese è troppo poco per vivere un posto come questo, ma è fin troppo per farsi volere bene dalla gente che comincia a pretendere promesse di un tuo pronto ritorno.
E sotto le luci soffuse nell’ennesimo club di Manhattan, mi piace guardare il comportamento del “maschio discotecaro” – mia stessa specie – che, da che mondo e mondo, per me si classifica in quattro categorie.

Gli HOOKERS. Altresì detti gli “agganciatori”. Quelli che hanno nella pesca d’altura, il loro sport di vita. Quelli che sono capaci di abbordare vagonate di ragazze nell’arco di venti minuti. Potrebbero fare una party senza invitati, e rimorchiare la gente per strada. Dopo mezz’ora in mezzo alla folla non si riuscirebbe neanche a camminare. Senza un perché, senza un però. Riescono ad abbattere quell’interminabile spazio che si circoscrive fra il “Mamma, quant’è carina quella la…” ed il “Ciao, come ti chiami?”. Divergenza di carattere rispetto al maschio medio che ne segna l’esclusività della specie. L’Hooker è Hooker, nel bene e nel male. Anche se alla fine non conclude nulla.

I FOLLOWERS. Le spalle degli Hookers. Quelli che hanno il pulsante del “Ciao come ti chiami?” pigiato sull’off. In compenso però, hanno in modalità on tutto il resto. Quelli che entrano in scena presentati con una pacca sulla spalla. Non si capirà mai perché gli venga così difficile dire quel “Ciao” iniziale, ma si capisce perché in seguito eruttano una lava di parole che conquisterebbe un popolo. Li vedi li, col bicchiere in mano che guardano malandrini, aspettando solo un cenno. Arrivato quello, crolla anche l’impero più solido. Stanlio ed Onlio, Franco e Ciccio, Ficarra e Picone. Date il mondo in mano ad un Hooker ed ad un Follower e la rivoluzione è fatta.

I FRIENDS. Gli Amici. Il cielo li accolga in pace perché nella vita hanno sofferto tanto. In discoteca in gruppo, pronti a vigilare sulla ragazza amica. Amica che si traduce in essere di natura femminile che non te la darà mai. E il Friend sta li a ballare difendendola da attacchi che volano a destra e sinistra, quando vorrebbe essere li, a fare la spalla dell’Hooker che nel frattempo ne sta intrattenendo sei, compresa la barista bona. Magari pensando che l’amica, oltre ad essere amica, è anche fidanzata. E la da a qualcun altro che non sei tu, e che magari in quel momento si diverte da qualche altra parte. Martire.

I DRINKERS. Le vittime. Quelli che sono troppo riservati per fare gli Hookers, troppo individualisti per fare i Followers e troppo scazzati (soli?) per fare gli Amici. Con il biglietto d’ingresso, prendono in affitto il lato preferito di bancone ed entrano in letargo la, giustificandosi con il classico “Studio la situazione”. Dopo cosi tanto studio, probabilmente avranno già tre lauree in “Donnologia Teorica”. Diventano pericolosi se brilli. Soprattutto per il loro portafoglio che va dimagrendo a vista d’occhio. La svolta si ha quando la barista (quella bona di prima) ti serve l’acqua al posto della vodka, in uno shot microscopico e te la fa anche pagare 20 dollari, mancia esclusa. Lui rimane li, col sorrisino da ebete a fissarle il tatuaggio poco sopra le chiappe (che lei, stronza, usa per distrarti) e pensa che un domani – chissà – in Paradiso le chiederà come si chiama. Ma lei, in Paradiso quel giorno non ci sarà, perché – dura verità – con i suoi soldi ha comprato casa alle Hawaii.

Enricuzzu, Hooker mancato e Follower di identità, dall’alto del suo Mojito quasi finito, si rituffa nella pista newyorkese per “succhiare” quest’ultimo ghiaccio a stelle e strisce, e lascia la parola a voi. D'altronde se quattro ragazze newyorkesi sono diventate famose spettegolando su sesso e dintorni, non vedo chi o cosa impedisce di farlo a noi. Chi siete, chi vi sentite? Magari risponderà anche qualche donna intraprendente che, sfacciata, ci svelerà le categorie femminili. Perché le donne si sa, ne sanno sempre una più dell’… Hooker!

Enricuzzu

(nella foto in basso) Enricuzzu con amici al "Le Souk" di Manhattan.

sabato 6 dicembre 2008

Sulle ali di un ricordo che non c'è.

Windsor Locks (Connecticut),
December 2nd

Ricordava il suo nome. Ricordava che veniva da Los Angeles. Dopo, il vuoto. Un vuoto lungo cinquantacinque anni.
Henry Gustav Molaisos – da tutti conosciuto semplicemente come H.M. – cadde dalla bicicletta nel 1953, subendo un durissimo trauma cranico. Mesi di sofferenza, mesi di agonia. Crisi epilettiche che non gli lasciavano fiato. Poi il grande passo: l’operazione al cervello. Quell’operazione però, negli anni in cui la medicina sapeva poco in materia celebrale, cambiò radicalmente la sua vita. Un contrattempo. Un errore di valutazione. Fatale. Da quel giorno Henry – compromessa la sua memoria a breve termine – non ricordava più nulla. Ogni mattina come se fosse una nuova mattina. Ogni sole che sorgeva come se fosse un segreto mai sentito. Ogni persona accanto – seppur accanto da decine di anni – come se fosse incontrata per la prima volta.

Sembrava solo un film quello interpretato da Adam Sandlar e Drew Barrymore qualche anno fa. 50 volte il primo bacio, recitava poetico il titolo. Lui, giovane scapolo hawaiano, che tentava di far innamorare lei, stupenda fanciulla che in seguito ad un incidente in macchina, dimenticava tutto una volta andata a letto. Esattamente come Henry. Solo che per uno strano scherzo del destino, questa volta è tutto reale.

Come è reale anche Antoniette, la paziente che cura Virginè, mia carissima amica francese con cui ho condiviso 2 mesi newyorkesi. Virginè ogni mattina, nella splendida isola caraibica di Guadalupe dove vive, si reca a casa di Antoniette per accudirla. “Piacere, sono Virginè.” le prime parole. Esattamente le stesse da circa 2 anni, ogni singolo giorno. Antoniette ha avuto un incidente da giovane e da allora non ricorda più nulla, esattamente come Henry. “Quando l’accompagno in bagno, guarda lo spazzolino come se fosse un oggetto di un altro pianeta” – mi racconta Virginè – “e tutte le volte dopo averlo studiato un po’, se lo passa fra i capelli scambiandolo per un pettine”. Dovrebbe forse far ridere. Magari la prima volta. E anche la seconda. Ma alla terza, un incredibile senso di tristezza ti scuote dentro. Esattamente come quello che scuote me quando Virginè mi dice che la figlia di Antoniette ormai non va più a trovarla perché non ha più il coraggio di sentirsi guardata da sua madre come un’estranea. “Antoniette ha ottanta anni, è dolcissima anche se ormai ragiona poco” – continua Virginè – “ma credo che non dobbiamo giudicare sua figlia, anche se pensiamo sia in errore.”. Una inconsapevole saggezza che io ammetto candidamente di non possedere. Virginè invece – oltre a questo – ha capito anche che Antoniette qualcosa la ricorda: la musica. Sulle sue note sorride come una bimba, si mette a danzare e a volte ricorda anche come si usa lo spazzolino. Dove arrivano le donne – chissà – forse solo gli angeli.

Guardo la foto di Henry sul New York Times. Un simpatico brizzolato che sorride alla vita. Sorrido anche io. Sono pronto a scommettere che di sorrisi di rimando ne ha ricevuti tanti. Tutti quei sorrisi che da oltre cinquant’anni si cancellano nella sua mente con un colpo di spugna, una volta chiusi gli occhi. Per quella fatale ingiustizia che ha privato l’uomo di una delle cose che più gelosamente è stato abituato a conservare: i ricordi.

Un martedi come tanti altri di qualche giorno fa, Henry ha chiuso gli occhi per l’ultima volta. Ad 82 anni, in una casa di riposo del Connecticut ha salutato tutti in silenzio per andare incontro ad una nuova vita. Forse, chissà… una vita in cui – spero fra molto tempo – incontrerà Antoniette. Sopra le nuvole che stanno a metà fra il Connecticut e Guadalupe. E magari li si abbracceranno per la prima volta. Una prima volta che sono sicuro, questa volta non dimenticheranno mai.

Enricuzzu
(l'articolo del New York Times:
http://www.nytimes.com/2008/12/05/us/05hm.html)

(nella foto) Henry Gustav Molaison

lunedì 1 dicembre 2008

NBA. The Game Happens Here.

Manhattan (NY),
November 29th

Quando le luci del Madison Square Garden si spengono all’improvviso, tu sei seduto impacciato, mentre tenti di versare il ketchup ad arte sul tuo Hot Dog, possibilmente senza mietere vittime. I giocatori dei Knicks e dei Warriors sono abbracciati gli uni con gli altri, le luci illuminano il parquet dove Jolanda col microfono comincia a cantare l’inno americano. Sul tabellone, una bandiera degli Stati Uniti ondeggia imperiosa mentre tutti gli spettatori – abbracciati e mano sul cuore – si alzano intorno a te con sguardo fiero. I brividi ti salgono su dalla colonna vertebrale fino ad arrivare alla mano che fa tremare la Coca Cola. Cinque lunghissimi minuti in cui si ferma il cuore e si paralizza la mente. Se il primo impatto scrive la storia di luoghi e persone, New York scrive negli occhi di chi racconta la storia dell’NBA coi contorni della spettacolarità.

La spettacolarità del lungo boato che accompagna Crawford, ex stella di casa indimenticata, ora ai Golden State Warriors. La spettacolarità di Mike D’Antoni, coach italo-americano dei Knicks, che batte la mano sul petto di ogni suo singolo giocatore per trasmettergli passione. La spettacolarità delle cheerleaders e dei loro salti mortali. La spettacolarità, unica fede professata da una New York capace di fischiare un avversario lanciato in contropiede, reo non di aver segnato ma di averlo fatto senza una stupefacente schiacciata volante.
Nella lunga sera di Manhattan, passa quasi sottovoce, strozzata dal roboante show a stelle e strisce, la sfortuna dei due italiani sul parquet. Gallinari, che a causa della schiena malandrina, ancora di New York ha potuto godere solo i canestri visti dalla panca e Belinelli, genio incompreso di Golden State, buttato fuori partita dopo neanche cinque minuti, dopo aver infilato una tripla dall’angolo ed aver mantenuto i Warriors a galla. Misteri della vita. Misteri di Coach Nelson.

Al suono della campana, dopo appena due ore e mezzo di uno spettacolo che avresti voluto non finisse mai, sprofondi nella poltroncina mentre il tabellone inonda il Garden di luci, inchiodando al muro il risultato che recita New York Knicks – Golden State Warriors 138-125. L’altoparlante urla all’impazzata il nome di David Lee, capace di segnare qualcosa come 37 punti tutti in una sera, tanti quanti come probabilmente mai più rifarà. Sui video compare un ragazzo con la maglia dei Knicks avvolta negli oltre 150 chili di buona forchetta, che balla contento sommerso da boato di applausi che gli tributa un Madison Square Garden in piedi per la seconda volta. Chiamatele se volete, emozioni. Pensando che a New York – in fondo – è solo un sabato come un altro.

I giocatori sul parquet si abbracciano e si danno il “cinque” mentre le voci di una America che non vuole andare a dormire, continuano a scuoterti dentro. Ripenso alle luci soffuse. All'inno cantato a sguarciagola. A tutte le mani sul cuore. In aria sembrano volare nitide le parole che Barack Obama urlò al paese qualche ora dopo aver preso in affitto la Casa Bianca: “Ci solleveremo o precipiteremo tutti insieme. Come una sola Nazione. Come un unico popolo. Il popolo degli Stati Uniti d’America.



Enricuzzu
(articolo pubblicato su:
http://www.rosaneronline.it/altri_sport/articoli/2008/12/03/nba_the_game_happens_here)

(nella foto) Jamal Crawford, ex stella dei Knicks ora in maglia Warriors, prova il tiro...
(nel video) L'Inno degli USA cantato al Madison Square Garden