domenica 7 dicembre 2008

Enricuzzexy and the City

Manhattan (NY),
December 6th

L’esperienza newyorkese va quasi sgocciolando via come un Mojito che si appresa a finire. Resta quasi da “succhiare” il ghiaccio che, freddo, sembra anestetizzare un piacere che vorresti non finisse mai. Io rimango con la cannuccia fra le labbra, pensando che qualche mese è troppo poco per vivere un posto come questo, ma è fin troppo per farsi volere bene dalla gente che comincia a pretendere promesse di un tuo pronto ritorno.
E sotto le luci soffuse nell’ennesimo club di Manhattan, mi piace guardare il comportamento del “maschio discotecaro” – mia stessa specie – che, da che mondo e mondo, per me si classifica in quattro categorie.

Gli HOOKERS. Altresì detti gli “agganciatori”. Quelli che hanno nella pesca d’altura, il loro sport di vita. Quelli che sono capaci di abbordare vagonate di ragazze nell’arco di venti minuti. Potrebbero fare una party senza invitati, e rimorchiare la gente per strada. Dopo mezz’ora in mezzo alla folla non si riuscirebbe neanche a camminare. Senza un perché, senza un però. Riescono ad abbattere quell’interminabile spazio che si circoscrive fra il “Mamma, quant’è carina quella la…” ed il “Ciao, come ti chiami?”. Divergenza di carattere rispetto al maschio medio che ne segna l’esclusività della specie. L’Hooker è Hooker, nel bene e nel male. Anche se alla fine non conclude nulla.

I FOLLOWERS. Le spalle degli Hookers. Quelli che hanno il pulsante del “Ciao come ti chiami?” pigiato sull’off. In compenso però, hanno in modalità on tutto il resto. Quelli che entrano in scena presentati con una pacca sulla spalla. Non si capirà mai perché gli venga così difficile dire quel “Ciao” iniziale, ma si capisce perché in seguito eruttano una lava di parole che conquisterebbe un popolo. Li vedi li, col bicchiere in mano che guardano malandrini, aspettando solo un cenno. Arrivato quello, crolla anche l’impero più solido. Stanlio ed Onlio, Franco e Ciccio, Ficarra e Picone. Date il mondo in mano ad un Hooker ed ad un Follower e la rivoluzione è fatta.

I FRIENDS. Gli Amici. Il cielo li accolga in pace perché nella vita hanno sofferto tanto. In discoteca in gruppo, pronti a vigilare sulla ragazza amica. Amica che si traduce in essere di natura femminile che non te la darà mai. E il Friend sta li a ballare difendendola da attacchi che volano a destra e sinistra, quando vorrebbe essere li, a fare la spalla dell’Hooker che nel frattempo ne sta intrattenendo sei, compresa la barista bona. Magari pensando che l’amica, oltre ad essere amica, è anche fidanzata. E la da a qualcun altro che non sei tu, e che magari in quel momento si diverte da qualche altra parte. Martire.

I DRINKERS. Le vittime. Quelli che sono troppo riservati per fare gli Hookers, troppo individualisti per fare i Followers e troppo scazzati (soli?) per fare gli Amici. Con il biglietto d’ingresso, prendono in affitto il lato preferito di bancone ed entrano in letargo la, giustificandosi con il classico “Studio la situazione”. Dopo cosi tanto studio, probabilmente avranno già tre lauree in “Donnologia Teorica”. Diventano pericolosi se brilli. Soprattutto per il loro portafoglio che va dimagrendo a vista d’occhio. La svolta si ha quando la barista (quella bona di prima) ti serve l’acqua al posto della vodka, in uno shot microscopico e te la fa anche pagare 20 dollari, mancia esclusa. Lui rimane li, col sorrisino da ebete a fissarle il tatuaggio poco sopra le chiappe (che lei, stronza, usa per distrarti) e pensa che un domani – chissà – in Paradiso le chiederà come si chiama. Ma lei, in Paradiso quel giorno non ci sarà, perché – dura verità – con i suoi soldi ha comprato casa alle Hawaii.

Enricuzzu, Hooker mancato e Follower di identità, dall’alto del suo Mojito quasi finito, si rituffa nella pista newyorkese per “succhiare” quest’ultimo ghiaccio a stelle e strisce, e lascia la parola a voi. D'altronde se quattro ragazze newyorkesi sono diventate famose spettegolando su sesso e dintorni, non vedo chi o cosa impedisce di farlo a noi. Chi siete, chi vi sentite? Magari risponderà anche qualche donna intraprendente che, sfacciata, ci svelerà le categorie femminili. Perché le donne si sa, ne sanno sempre una più dell’… Hooker!

Enricuzzu

(nella foto in basso) Enricuzzu con amici al "Le Souk" di Manhattan.

sabato 6 dicembre 2008

Sulle ali di un ricordo che non c'è.

Windsor Locks (Connecticut),
December 2nd

Ricordava il suo nome. Ricordava che veniva da Los Angeles. Dopo, il vuoto. Un vuoto lungo cinquantacinque anni.
Henry Gustav Molaisos – da tutti conosciuto semplicemente come H.M. – cadde dalla bicicletta nel 1953, subendo un durissimo trauma cranico. Mesi di sofferenza, mesi di agonia. Crisi epilettiche che non gli lasciavano fiato. Poi il grande passo: l’operazione al cervello. Quell’operazione però, negli anni in cui la medicina sapeva poco in materia celebrale, cambiò radicalmente la sua vita. Un contrattempo. Un errore di valutazione. Fatale. Da quel giorno Henry – compromessa la sua memoria a breve termine – non ricordava più nulla. Ogni mattina come se fosse una nuova mattina. Ogni sole che sorgeva come se fosse un segreto mai sentito. Ogni persona accanto – seppur accanto da decine di anni – come se fosse incontrata per la prima volta.

Sembrava solo un film quello interpretato da Adam Sandlar e Drew Barrymore qualche anno fa. 50 volte il primo bacio, recitava poetico il titolo. Lui, giovane scapolo hawaiano, che tentava di far innamorare lei, stupenda fanciulla che in seguito ad un incidente in macchina, dimenticava tutto una volta andata a letto. Esattamente come Henry. Solo che per uno strano scherzo del destino, questa volta è tutto reale.

Come è reale anche Antoniette, la paziente che cura Virginè, mia carissima amica francese con cui ho condiviso 2 mesi newyorkesi. Virginè ogni mattina, nella splendida isola caraibica di Guadalupe dove vive, si reca a casa di Antoniette per accudirla. “Piacere, sono Virginè.” le prime parole. Esattamente le stesse da circa 2 anni, ogni singolo giorno. Antoniette ha avuto un incidente da giovane e da allora non ricorda più nulla, esattamente come Henry. “Quando l’accompagno in bagno, guarda lo spazzolino come se fosse un oggetto di un altro pianeta” – mi racconta Virginè – “e tutte le volte dopo averlo studiato un po’, se lo passa fra i capelli scambiandolo per un pettine”. Dovrebbe forse far ridere. Magari la prima volta. E anche la seconda. Ma alla terza, un incredibile senso di tristezza ti scuote dentro. Esattamente come quello che scuote me quando Virginè mi dice che la figlia di Antoniette ormai non va più a trovarla perché non ha più il coraggio di sentirsi guardata da sua madre come un’estranea. “Antoniette ha ottanta anni, è dolcissima anche se ormai ragiona poco” – continua Virginè – “ma credo che non dobbiamo giudicare sua figlia, anche se pensiamo sia in errore.”. Una inconsapevole saggezza che io ammetto candidamente di non possedere. Virginè invece – oltre a questo – ha capito anche che Antoniette qualcosa la ricorda: la musica. Sulle sue note sorride come una bimba, si mette a danzare e a volte ricorda anche come si usa lo spazzolino. Dove arrivano le donne – chissà – forse solo gli angeli.

Guardo la foto di Henry sul New York Times. Un simpatico brizzolato che sorride alla vita. Sorrido anche io. Sono pronto a scommettere che di sorrisi di rimando ne ha ricevuti tanti. Tutti quei sorrisi che da oltre cinquant’anni si cancellano nella sua mente con un colpo di spugna, una volta chiusi gli occhi. Per quella fatale ingiustizia che ha privato l’uomo di una delle cose che più gelosamente è stato abituato a conservare: i ricordi.

Un martedi come tanti altri di qualche giorno fa, Henry ha chiuso gli occhi per l’ultima volta. Ad 82 anni, in una casa di riposo del Connecticut ha salutato tutti in silenzio per andare incontro ad una nuova vita. Forse, chissà… una vita in cui – spero fra molto tempo – incontrerà Antoniette. Sopra le nuvole che stanno a metà fra il Connecticut e Guadalupe. E magari li si abbracceranno per la prima volta. Una prima volta che sono sicuro, questa volta non dimenticheranno mai.

Enricuzzu
(l'articolo del New York Times:
http://www.nytimes.com/2008/12/05/us/05hm.html)

(nella foto) Henry Gustav Molaison

lunedì 1 dicembre 2008

NBA. The Game Happens Here.

Manhattan (NY),
November 29th

Quando le luci del Madison Square Garden si spengono all’improvviso, tu sei seduto impacciato, mentre tenti di versare il ketchup ad arte sul tuo Hot Dog, possibilmente senza mietere vittime. I giocatori dei Knicks e dei Warriors sono abbracciati gli uni con gli altri, le luci illuminano il parquet dove Jolanda col microfono comincia a cantare l’inno americano. Sul tabellone, una bandiera degli Stati Uniti ondeggia imperiosa mentre tutti gli spettatori – abbracciati e mano sul cuore – si alzano intorno a te con sguardo fiero. I brividi ti salgono su dalla colonna vertebrale fino ad arrivare alla mano che fa tremare la Coca Cola. Cinque lunghissimi minuti in cui si ferma il cuore e si paralizza la mente. Se il primo impatto scrive la storia di luoghi e persone, New York scrive negli occhi di chi racconta la storia dell’NBA coi contorni della spettacolarità.

La spettacolarità del lungo boato che accompagna Crawford, ex stella di casa indimenticata, ora ai Golden State Warriors. La spettacolarità di Mike D’Antoni, coach italo-americano dei Knicks, che batte la mano sul petto di ogni suo singolo giocatore per trasmettergli passione. La spettacolarità delle cheerleaders e dei loro salti mortali. La spettacolarità, unica fede professata da una New York capace di fischiare un avversario lanciato in contropiede, reo non di aver segnato ma di averlo fatto senza una stupefacente schiacciata volante.
Nella lunga sera di Manhattan, passa quasi sottovoce, strozzata dal roboante show a stelle e strisce, la sfortuna dei due italiani sul parquet. Gallinari, che a causa della schiena malandrina, ancora di New York ha potuto godere solo i canestri visti dalla panca e Belinelli, genio incompreso di Golden State, buttato fuori partita dopo neanche cinque minuti, dopo aver infilato una tripla dall’angolo ed aver mantenuto i Warriors a galla. Misteri della vita. Misteri di Coach Nelson.

Al suono della campana, dopo appena due ore e mezzo di uno spettacolo che avresti voluto non finisse mai, sprofondi nella poltroncina mentre il tabellone inonda il Garden di luci, inchiodando al muro il risultato che recita New York Knicks – Golden State Warriors 138-125. L’altoparlante urla all’impazzata il nome di David Lee, capace di segnare qualcosa come 37 punti tutti in una sera, tanti quanti come probabilmente mai più rifarà. Sui video compare un ragazzo con la maglia dei Knicks avvolta negli oltre 150 chili di buona forchetta, che balla contento sommerso da boato di applausi che gli tributa un Madison Square Garden in piedi per la seconda volta. Chiamatele se volete, emozioni. Pensando che a New York – in fondo – è solo un sabato come un altro.

I giocatori sul parquet si abbracciano e si danno il “cinque” mentre le voci di una America che non vuole andare a dormire, continuano a scuoterti dentro. Ripenso alle luci soffuse. All'inno cantato a sguarciagola. A tutte le mani sul cuore. In aria sembrano volare nitide le parole che Barack Obama urlò al paese qualche ora dopo aver preso in affitto la Casa Bianca: “Ci solleveremo o precipiteremo tutti insieme. Come una sola Nazione. Come un unico popolo. Il popolo degli Stati Uniti d’America.



Enricuzzu
(articolo pubblicato su:
http://www.rosaneronline.it/altri_sport/articoli/2008/12/03/nba_the_game_happens_here)

(nella foto) Jamal Crawford, ex stella dei Knicks ora in maglia Warriors, prova il tiro...
(nel video) L'Inno degli USA cantato al Madison Square Garden

venerdì 28 novembre 2008

Thanksgiving Day

Long Island (NY),
November 27th

Le sue mani scivolavano dentro la farina leggere, come le foglie che volavano fuori in balcone sulle ali del vento. Le rughe del tempo erano nascoste, invisibili, fra gli ingredienti che maneggiava, come lei stessa forse desiderava. Gli anni si facevano sentire sulla pelle, ma i ricordi di Nonna Arpaia restavano nitidi come fossero accaduti ieri. “Otto giorni” – mi dice con un sorriso – “Otto giorni abbiamo viaggiato sull’Oceano, 40 anni fa per arrivare qui a New York”. Quarant’anni, penso. Non mi bastano le dita di mani e piedi per arrivarci. Quasi il doppio dei miei anni. Anni che raccontano di gente dell’epoca, ritratta in fotografie in bianco e nero, che si imbarcava su una nave carica di sogni. Otto giorni di speranze, tanti quanti ne servirebbero oggi per fare un giro in vacanza fra i cinque continenti. Con meno speranze, ma sicuramente più soldi di allora.
40 anni per abituarsi – anche se di cuore e anima napoletana – al Nuovo Continente, con feste annesse. Pronti per celebrare il giorno meno amato dai tacchini d’America, il Thanksgiving Day.

Quando Marcello – mio Boss e amico, ultimo della generazione Arpaia ma ormai newyorkese purosangue - mi ha invitato nella sua splendida casa di Long Island, sua mamma ha illuminato l’ambiente con un sorriso immenso. Un altro italiano a tavola, durante la festa più americana che c’è. Il primo pensiero di Mr. Arpaia – padre di Marcello – invece è stato più concreto: basterà il tacchino per tutti? Si perché – mi spiega – a distanza di un giorno dalla clemenza tradizionale che ha concesso Bush a due tacchini, lui la pensa diversamente: “Bush perdona. Io no.” E giù una risata che coinvolge tutti.
Ride anche Nonno Alfredo, lui che sulla famosa nave di 40 anni fa, ci ha caricato moglie e figli. Un presente come pensionato, un passato a suo modo prestigioso. Lavorava nei pressi del Rockefeller Center come “ascensorista”. Di quelli speciali però, quelli che salgono solo merce. Ed è proprio grazie a quella 'specialità' che si è potuto togliere diversi sfizi. “Come quella volta che ho caricato su Mohammed Alì, o ho rifiutato di accompagnare Bush padre.” mi racconta gonfiando il petto dentro il pullover. Non aveva digerito una politica in Kuwait. “A Liza Minelli però, il passaggio non l’ho rifiutato…” mi sussurra ridendo e facendo attenzione che sua moglie non lo senta.

Prima di andare a tavola, Marcello mi mostra la casa immersa dentro Long Island. Alle spalle, la verandina da sul fiume che porta all’oceano. I vicini non si raggiungono con le auto o con le bici, ma con gli acquascooter che tutti tengono posteggiati in giardino. Roba da Venezia del duemila. “Se metti un po’ di benzina in più...” – ride Marcello – “...può essere che arrivi in Italia!”.

Da dentro il salotto, la voce di Mrs. Arpaia ci richiama all’ordine come faceva con i suoi figli quando erano piccoli. Il tacchino è a tavola. Ci sediamo ed io guardo il tavolo da destra a sinistra, lentamente, come un dono scartato a Natale. C’è il tacchino, le salse aromatizzate, le tipiche patate dolci americane e la non proprio tipica lasagna fatta in casa. “Chi se ne futt… simm italiani!” mi dice facendomi l’occhiolino Nonno Arpaia. Io chiudo gli occhi per un attimo e immagino di stare a casa. Senza camino, ma con lo stesso amore che c’è a Long Island. Quando li riapro il tacchino è già sul piatto.
Felice Giorno del Ringraziamento a tutti.

Enricuzzu

(nella foto in alto) Veduta di Long Island (NY)
(nella foto in basso) Enricuzzu nella verandina di Casa Arpaia.

martedì 25 novembre 2008

Lady Liberty

Staten Island (NY),
November 23rd

Le donne, si sa, da che mondo e mondo hanno sempre il loro fascino. Come gitane ammaliatrici, riescono a stregare maschi e femmine, rendendoli schiavi del loro amore. Per sempre.
Lei era li, davanti ai miei occhi. Immensa, nella maestosità del suo sguardo, avvolta in una lunga toga. Accanto a me, gente che con i miei stessi occhi mi faceva capire che non potevo avere la presunzione di amarla da solo. Una città intera la ammirava e lei si concedeva, gentile, ad ogni sguardo. Sia esso intenso, sia esso malandrino. Lei, Lady Liberty – come la chiamano gli americani – è sempre stata li negli ultimi anni. Sotto gli occhi di tutti, ma allo stesso tempo leggermente nascosta. Lontana dalle mille luci della City o dal frastuono degli altri boroughs. Semplicemente appoggiata su un piedistallo, sulla Liberty Island - un lembo di terra nell’acqua - giusto a metà fra la punta sud di Manhattan e Staten Island.
Fu regalata dai francesi in simbolo della “Libertà che illumina il Mondo” per celebrare l’indipendenza americana dal governo britannico, il 4 Luglio del 1776. Ai suoi piedi porta delle catene spezzate, in ricordo di una libertà nel passato ritrovata e che nel presente andrebbe riportata in tutti i Continenti, sette, rappresentati dalla sua corona.

Tamara e Irene, le mie due compagne di viaggio erano un po’ tristi quella sera sul battello che ci trasportava. Il giorno dopo sarebbero tornate nella loro amata Spagna e volevano vedere per l’ultima volta Lady Liberty. “Non puoi salutare New York, senza salutare lei…” mi dice Irene con un briciolo di malinconia annegata nel freddo polare che faceva sul ponte del battello. Gli addii – siano anche essi degli arrivederci – non sono mai piacevoli. Io la guardavo, guardavo la gente intorno e mi chiedevo come si può riuscire ad essere ancora “speciali” dopo anni e anni. Ma la bellezza – quella vera – rimane immortale, scolpita come la Dichiarazione sulla tavola che lei tiene fra le braccia.

Rientrati al caldo, da dietro il vetro di un oblò, Lady Liberty si andava facendo sempre più piccola nel buio della notte di New York. Tamara le fa “ciao” con la manina quando si chiede ironica “Ma chi è?”. Io le risponde come rispose anni fa lo scrittore russo Maksim Gorkij, forse da dietro lo stesso oblò: “E’ il Dio degli americani.”. Semplicemente.

Enricuzzu

(nella foto in alto) Lady Liberty ripresa dalla fotocamera di Virginè Cieatut
(nella foto in basso) Tamara, Enricuzzu e Irene sul battello

martedì 18 novembre 2008

NBA. Where Italians Happen.

New York City,
November 18th

C’erano una volta quegli italiani che partivano alla scoperta del Nuovo Mondo con una valigia di cartone piena di sogni. C’erano una volta quegli italiani e – sorpresa – ci sono ancora, pieni di sogni ma oggi attaccati al cotone di una canotta ed al cuoio di un pallone di Basket. Ragazzoni partiti con mille speranze e gli occhi lucidi, tanto quanto il parquet dell’NBA. Sul filo dei loro pensieri, dei loro dubbi. Un Oceano attraversato tutto d’un fiato nel desiderio di scrivere la propria favola.
Bene che vada, disegni schiacciate volanti che strappano applausi a stelle e strisce sugli spalti ed in televisione. Male che vada, ti chiami Danilo Gallinari e vieni travolto dai fischi di un Madison Square Garden isterico per astinenza da vittorie, quando i NY Knicks che hai sempre sognato, ti scelgono come primo “non americano” del Draft 2009. La favola di un coach, Mike D’Antoni, che crede in te anche se in te non crede quasi nessuno. La favola di chi si è tolto una corona d’oro dalla testa in Italia, per diventare umile plebeo negli States. La favola che ad oggi stona, di una maledetta schiena che fa crack troppe volte, lasciandoti nelle narici il freddo odore della panchina e nelle orecchie i mugugni dei newyorkesi abbonati. Tu reo – in testa loro – di star seduto in prima fila, senza neanche pagare.

Poco più su, dalle parti di Toronto, prende scena la favola di Andrea Bargnani, il più classico degli emigrati. Italiano in America, giocatore canadese nella Lega USA. Uno a cui l’ombra di Bosh – stella dei Toronto Raptors – sta proprio stretta. Da lui passano molte le palle, forse troppe e da lui si perdono molte palle, sicuramente troppe. E stai li nella speranza di poterti ritrovare fra le mani, anche per caso, la palla giusta, per fare il canestro che ti cambia la vita. Tu che di canestri ne hai segnato tanti, ma forse non abbastanza.

Sicuramente però, più di quanti ne ha segnati nell’altra Costa, Marco Belinelli. Uno dalla faccia buona, il capello al vento e la mano calda. Evidentemente però, non abbastanza da convincere Coach Nelson a regalare qualche minuto in più all’italiano in una squadra – i Golden State Warriors – che le stelle le vedono solo la sera se alza gli occhi in su al cielo. La storia di Marco, che è un po’ come la storia del giocattolo in mano al bimbo capriccioso, a cui non piace affatto ma che non vuole regalare all’amichetto che tanto invece lo vorrebbe. Pochi minuti, tanto sarcasmo ed il paradosso del divieto assoluto nel cedere l’italiano ad altre compagini che sicuramente lo tratterebbero come oro colato. E Marco resta li, in silenzio, a sgambettare in campo quando il bimbo capriccioso gli concede cinque miseri minuti contro Minnesota. Marco, che in cinque miseri minuti infila due triple consecutive, dal retrogusto straordinario, portando i Warriors alla vittoria e Coach Nelson a storcere il naso.

Storie di italiani negli USA. Storie di tre ragazzi con mille sogni che meriterebbero applausi scroscianti semplicemente per il fatto di aver deciso di levarsi i panni dei campioni in patria ed aver indossato quelli dei “nessuno” fra i giganti. Nella NBA di LeBron James che infila 40 punti a partita, distruggendo canestri, parquet ed urlando “Avanti il prossimo!” con sguardo assassino. Nella NBA dei fantastici “threenbeliveble” di Boston campione in carica (Pierce – Garnett – Allen) che rispondono “Eccoci!”. Nella NBA di Mr. Kobe Bryant che fa splendere il sole sopra Los Angeles. Nella NBA di Shaquille O’Neil che dichiara vendetta da Phoenix. Semplicemente nella NBA, dove il parquet sembra brillare di più.

Lo stesso parquet – quello del Madison Square Garden – dove giorno 29 i Knicks di Gallinari ospiteranno (con Enricuzzu accoccolato sugli spalti) i Warriors di Belinelli. Nella speranza che la schiena del primo porti buone nuove e i minuti del secondo siano un po’ di più di quelli che servono a cuocere la pasta. Storie di sogni. Storie di desideri. Storie da NBA. Where Italians Happen.

Enricuzzu
( articolo pubblicato su http://www.rosaneronline.it/ al link
http://www.rosaneronline.it/altri_sport/articoli/2008/11/18/nba_where_italians_happens )

(nella foto) Marco Belinelli, dei Golden State Warriors.

martedì 11 novembre 2008

Sicilians, we can!

Little Italy, Manhattan (NY),
November 10th

Se ci si immerge in Little Italy, le strade sembrano diverse. Come disegnate per terra sulla tela di un quadro d’epoca. Anche l’aria sembra diversa. Sembra meno newyorkese e più italiana. La gente ti guarda, ti sorride, ti offre la frutta dai banconi. Sembra che la crisi finanziaria – la più spaventosa dell’ultimo secolo – debba ancora fare visita a Mulberry Street.

La nonna Giovanna non appena ti vede capisce subito che sei italiano. “Entrate picciotti…” mi dice sulla porta del ristorante. Io – amante delle tradizioni e delle nonne – proprio non posso rifiutare. Il sorriso è caldo, almeno quanto gli spaghetti paglia e fieno che servono al tavolo. Gli affari vanno bene, ma la paura del tracollo turba l’insieme come un fastidioso capello sul piatto. Nonna Giovanna è preoccupata. Si siede, e fra uno scontrino ed un menù, mi racconta i suoi timori. “Qui è l’America” – comincia cupa – “…non la Sicilia, anche se dalla Sicilia siamo sbarcati con un sogno grande così. Il sogno americano.” Gli occhi sembrano velati, nascosti in una burrasca di pensieri. La burrasca che ha travolto le maggiori banche a stelle e strisce e che fa nascere timori in chi sa che da queste parti si è al centro del mondo, nel bene ed ora sopratutto nel male. “Se accappottano loro, accappotta tutto il mondo” conclude nonna Giovanna, tradendo ancora una volta (qualora ce ne fosse stato bisogno) la sua provenienza sicula.
All’alba della nuova corsa alla Casa Bianca, è questa la fotografia del popolo meridionale a New York. Un popolo che americano non si sente nel passaporto, ma americano si ritrova nel portafoglio. Con paure annesse.

La “speranza” Obama, o “Maverick” McCain? Da una parte uno venuto da lontano con la forza di chi sa di avere mille sogni e di volervi realizzare. Dall’altra uno che prima ancora degli USA ha conosciuto sulla pelle le torture in Vietnam. Sicuramente due uomini veri, entrambi. Chi scegliere allora? Il dubbio, qualche giorno prima del 4 Novembre, sembrava avere un importanza relativa nell’Italia newyorkese. “Chiunque vinca… si troverà davanti una bella gatta da pelare” mi svela – con toni più coloriti – Salvatore. Sono passati oltre 30 anni da quando ha messo piede sul suolo americano, lasciando Bagheria. Tanti sacrifici all’inizio, poi finalmente un sogno che si avvera. Un’azienda che produce prodotti tipici italiani, pasta, sorbetti, come la nostra migliore tradizione insegna. Brooklyn d’altronde (dove si trova il suo quartier generale) di profumo italiano è vestita da diversi anni. “Ma serve davvero un cambiamento…” continua Salvatore. Cambiamento che dalla notte di martedi scorso ha il volto di Barack Obama. L’uomo venuto da lontano. Le sue idee hanno stregato la gente, i suoi propositi hanno conquistato un popolo. Ed è proprio attorno a quella parola – popolo – che si nasconde la verità segreta del desiderio a stelle e strisce. Il desiderio di compattarsi, la voglia di unirsi, insieme per tentare di afferrare un sogno, risollevandosi dalla polvere. Barack che viene dal Kenya è l’emblema di un mondo che può cambiare, che non deve arrendersi, se vuole credere nei propri ideali. “Siamo partiti entrambi da lontano e siamo arrivati qui” - mi dice con un sorriso orgoglioso Mario, chef di professione – “certo però… lui è diventato Presidente, io invece ho aperto un ristorante, ma il concetto non cambia!” conclude con ironia. Avere un sogno, credere in esso e saper sudare per rincorrerlo. Sono questi i 3 segreti che servono per poter volare. Il quarto probabilmente, è saper tornare a casa. Verso una Sicilia che di figli “importanti” ne ha sparsi in tutto il mondo ma che si ritrova al momento vuota, incatenata da acciaio invisibile, che noi vediamo ma abbiamo paura a sciogliere. Una Sicilia unita, nel Mondo, è forse un sogno arduo, ma non meno di quello che era il sogno di un giovane ragazzo nero che qualche giorno fa ha preso in affitto la Casa Bianca. “Dio benedica colui che da oggi è il mio Presidente” ha esclamato in Arizona, uno stanco ma signorile McCain. Dando una lezione di unità, di coesione e di fratellanza che la Sicilia e l’Italia tutta devono far loro prima possibile per poter davvero spiegare le ali. Da queste parti hanno già capito che se si vuole vincere una battaglia dura, si deve lottare ognuno al fianco dell’altro.

Sembrano librarsi in aria le ultime parole che Obama ha urlato ad una Chicaco in lacrime di gioia. E lente arrivare fino a noi. “Ci solleveremo o precipiteremo tutti insieme. Uniti. Come un unico popolo.” E nella notte, quella verità che ci scuote ma ci scalda il cuore: sicilians, we can.

Enricuzzu
(articolo pubblicato su Il Siciliano, in edicola 11/11/08)

sabato 8 novembre 2008

Una notte al Guggenheim

Manhattan (NY),
November 7th

L’ho sempre pensato: l’arte non è cosa mia. E’ come una festa in cui mi imbuco per sbaglio. Tutti a raccontarmi aneddoti sul festeggiato ed io ad annuire, con un drink in mano, ricordando con gli invitati quanto erano belli i tempi in cui io e lui scambiavamo due calci al pallone. Per poi scoprire che “lui” è una donna e magari gioca anche a tennis.
Ma che ti piaccia l’arte o no, il Guggenheim Museum lo devi assolutamente vedere. Perché l’arte – quella vera – la trovi proprio dove meno te l’aspetti.

Ci troviamo tutti alle 20 davanti l’entrata. C’è un party, dicono. Io però ai party sono abituato ad entrare a scena iniziata, per il piacere di farmi tirare dietro quelle quattro parolacce da ritardo. E quindi, arrivare al Guggenheim con un’ora di anticipo proprio non lo dugerisco. Perché fondamentalmente sono un pirla. Metafora di vita che capisco, poco dopo mezz’ora quando mi giro e vedo dietro di me una fila spaventosamente lunga, a zig zag, che finisce alle mie spalle e inizia in un punto non pervenuto di Central Park, fra fronde e alberelli. Ci sono tutti: bianchi e neri, belli e brutti, in fondo è arte anche quella. All’entrata, una piacente signorina mi invita a scrivere nome, cognome ed email su un foglio. Enrico Nunnari, comincio… “Ci serve per mandarle le email con le news del Guggenheim” mi dice sorridendo. Ah bene, rispondo. “Si si…” - continua una ragazza dietro di me con un cappellino a punta che con l’arte fa a pugni - “mandano almeno 3-4 email a settimana, è interessante.”. Ah, perfetto penso. La mia email è paperino, chiocciola scordatela punto it. “Che indirizzo strano” mi dice l’assistente del Museo. “Eh si, è una casella italiana, sa com’è…”. Ride, le rido di rimando. Credo sia reato federale per presa per il culo aggravata.
Una volta entrati, il Guggenheim si trasforma in una giungla. Piacenti donne d’affari snobbano i quadri per collezionare bicchieri di buon vino rosso. “Aiutano a capire meglio l’arte” mi spiega una ragazza di Los Angeles. Ovvio – penso – casomai non ci capisci una mazza, ti fai due bicchieri di nero d’avola e cominci a commentare l’astratto futurismo minimalista dei quadri a primo piano.

Di sicuro però, io brutta figura proprio non volevo farne. E se proprio non vuoi farne, devi spararle grosse le cavolate e complicate. Perché se non puoi convincere la folla, quantomeno devi confonderla. E' la cosa migliore che ho pensato davanti a quella cornice con contenuto bianco. Senza un se, senza un ma, uno scarabocchio per caso, una pennellata per combinazione. No, solo bianco. Sotto, la targhetta col nome dell'artista: Catherine Opie. Sono perplesso nell’intimità della mia coscienza. Io non capirò anche una mazza di arte, ma vorrei sfidare chiunque a trovare un senso in quel quadro. “Lei che ne pensa?”. Mi arriva cosi, a freddo, la domanda da una signora sulla quarantina intenta come me a fissare quel nulla. E ora che diavolo sparo? “Secondo me, ci descrive il vuoto delle nostre opinioni. Si insomma, la nostra incapacità, a volte. di rendere un’idea nostra. Forse per paura nell’esporci al giudizio altrui.”. Mi fermo, bevo un po’ di vino, credo che da a momento all’altro giunga la risata sganasciata della signora. Invece mi guarda, perplessa e conclude “Lei è un genio.”. Ma dai? Ripenso alla ragazza che lodava le doti dell’alcool per capire l’arte. Mi sa che il genio è lei. Non contenta però, la signora, palesemente eccitata, chiama una sua amica e la porta davanti al quadro bianco. “Cara, stavo scambiando due chiacchere davanti questa meraviglia…”. “Se notate, signore…” – continuo ormai in preda al vino che scende – “il bianco, il nulla, probabilmente ci vuol far intendere che possiamo disegnare ciò che vogliamo in questo quadro. Ciò che più desideriamo. La vita prende i contorni che noi stessi le diamo. Credo sia questo la volontà dell’artista.”. Le due malcapitate mi guardano ammirate, come pendenti dalle mie labbra. Manca poco e mi convinco anche io delle stronzate che vado sparando.
All’improvviso, tutto l’insieme magico viene sciolto dalla voce roca di una guardia del Museo. In mano ha un quadro con disegnato il mare, qualche uccello, un sole poco splendente. Si fa spazio e lo appende sopra la targhetta dell'artista, dissolvendo quella parete bianca. “Scusateci, ma abbiamo potuto appenderlo solo ora.” ci dice con imbarazzo. Le signore mi guardano perplesse con i loro drink in mano. Io prevedo il disastro, ma anticipo tutti e con un sorriso da schiaffi, alzo il bicchiere di vino, sussurrando “Ladies… buon proseguimento.

In fondo, anche la presa per il culo – seppur involontaria – è arte. Arte da Guggenheim Museum.

Enricuzzu

(nella foto) Enricuzzu perplesso, tenta di capire il senso della vita.

sabato 25 ottobre 2008

Con la valigia in mano, da Manhattan... in Korea!

Flushing, Queens (NY),
October 24th

E’ un tranquillo Giovedì di fine Ottobre quando, in una New York intenta a prestare un occhio a Obama ed un orecchio a McCain, si sparge la notizia così sottovoce che quasi nessuno se ne accorge. Ad un mese e mezzo di distanza dal suo primo piede in territorio a stelle e strisce, Enricuzzu trasloca.
Come un perfetto newyorker annoiato, figlio della City, ho deciso che era l’ora di lasciare il delizioso East Village di Manhattan. Anche perché l’altrettanto delizioso appartamentino del mio Boss era diventato troppo stretto da quando, vastasamente, mi sono infilato a scrocco approfittando della sua generosità. E cosi, in direzione Flushing, nel Queens, dove mi aspetta il YMCA Residence, ci ritroviamo in due, su quella subway. Io e quell’infame traditrice della mia valigia. Una figura ormai dotata di vita propria, capace di ingrassare inspiegabilmente a vista d’occhio. Lei – la pacchionazza – che ha messo da sola in crisi un Boeing della British Airways, costretto a volare sopra l’oceano piegato di lato per controbilanciare il suo peso. Lei, a cui ogni volta devo inventare entrate secondarie in subway, dato che la sua silhoutte non le permette di entrare come tutti i cristiani dalle entrate convenzionali.

Dopo uno smisurato numero di fermate, la linea 7 della subway arriva finalmente al capolinea. Quando esco a riveder le stelle, mi fermo impietrito. La “pacchionazza” mi guarda dubbiosa come a volermi chiedere dove siamo finiti. E in effetti, tutti i torti non ha. Se prendete un turista infatti, gli vendete un volo per la Grande Mela e lo portate bendato da queste parti, state certi che rivorrà i soldi indietro, accusandovi di aver detto New York, non Seoul in Korea. Ed invece, ironia della sorte, Flushing, frazione del Queens è ancora New York a tutti gli effetti.
Le centinaia di insegne luminose, in rigorosi ideogrammi koreani, ti stordiscono. Le numerose agenzie di viaggio presenti in zona promuovono low-cost convenientissimi: “da New York a Seoul in un batter d’occhio”. Probabilmente nel senso che per quanto batti gli occhi, in Korea qua ti ci senti per davvero. E neanche devi pagare.
A differenza di Chinatown a Manhattan, dove sembra di trovare americani che giocano a fare i cinesi però, la Korea Town del Queens sembra molto più reale. Qua nessuno fa finta, sono davvero koreani capitati per sbaglio negli USA. Qua qualcosa in koreano la devi imparare per forza se non vuoi essere fregato. Come stava capitando a me all’entrata nel primo fast-food. Dalle insegne - ovviamente - non ci avevo capito una fava, ma mi son fatto guidare da un innato istinto che ha identificato nell’immagine di panino e bibita sulla finestra, un posto dove poter mangiare qualcosa. Non appena varco la porta mi accolgono con una parola che ho capito in seguito significare “ciao” in koreano (che si scrive: 안 녕). Partiamo male. Mi guardano e capiscono dai tratti somatici che, probabilmente, non sono asiatico. Non c’è che dire, delle volpi. A quel punto cominciano a parlare in spagnolo, seconda lingua ufficiale nel Flushing vista la massiccia presenza di ispanici. Io però – pur sapendo parlare un buon spagnolo – mi impunto sulle mie. Siamo a New York? Parliamo inglese. Chiedo cosa c’è di buono nel Menù in lingua anglosassone e mi sento rispondere in prima battuta con un paio di risate, dal proprietario e dai commessi e subito dopo con un “Parli americano? Sei di Manhattan, vero?”. Anche cabarettisti questi koreani. No, sono siciliano – mi vien da rispondere – e se ti do due timpulate internazionali dici che le capiscono anche a Seoul?
Ho realizzato col tempo, dopo averci sbattuto la testa, che qui l’inglese è davvero considerato la terza lingua. Una lingua che – se proprio ci tieni – la gente si adatta a parlare per venirti incontro. Anche se di fatto ti trovi sempre a New York.
All’uscita da quel tutto sommato simpatico bar, mi immergo nelle strade del Flushing dove becco il mio coinquilino turco col quale dividerò la stanza. Con la “pacchionazza” ancora in mano il mio unico pensiero diventa quello di buttarmi al più presto nel letto. “Come troviamo il Residence?” chiedo ad Erkan, che già abita la da un mese. “Tranquillo” – mi risponde – “…è l’unico edificio con l’insegna in Inglese!” scoppiando a ridere. Rido anche io mentre ci immergiamo nelle strade del Flushing. Fra gli ideogrammi luminosi penso a dove mi porterà il futuro lavorativo un domani. L’Asia non è una prospettiva così remota. A quel punto però, gli ideogrammi, o li si impara o li si impara!

C’erano una volta un italiano ed un turco in una New York koreana... sembra una barzelletta. Provate a raccontarla in giro.

Enricuzzu

(nella foto) Il mio panificio di fiducia. PS. Mamma tranquilla, sono davvero a New York, non a Seoul.

giovedì 16 ottobre 2008

Calciatori e Showgirls

E' bastato qualche gol (anche se di culo...) per mandare in delirio le fans americane che - abituate ad armadi gonfiati di football - di calciatori ne vogliono sempre di più...


martedì 14 ottobre 2008

It's just Soccer!

Brooklyn (NY),
October 14th

Ci sono due cose alle quali, in qualunque parte del mondo si trovi, Enricuzzu non sa proprio rinunciare: le donne ed il calcio. E se con le prime qui a Brooklyn devi stare attento a non sbagliare se non vuoi ritrovarti il fondoschiena al posto della faccia e viceversa, per il secondo la strada è più facile. Basta ritrovarsi tutti un Lunedi sera dalle parti di McCarren Park ed il gioco è fatto.
Il nostro gruppo pallonaro è composto da persone molto tranquille, non c’è che dire. Il più delicato è il mio coinquilino, Erkan, turco ultrà sfegatato del Fenerbache. Ho detto tutto. Quando lo conobbi gli ricordai subito che due anni fa ci demolirono 3-0 in Coppa UEFA a Istanbul. Rise. L’infame era allo stadio quella sera.
Durante il riscaldamento pre-match, per fargliela pagare un pò, gli faccio un tunnel e la buttiamo sul ridere. Ma si avvicina Kevin, un ragazzo americano e sorridendo mi spiega l’unica regola che hanno da queste parti. Il tunnel è un po’ come un offesa. Te ne sono concessi due a partita. Il terzo, se vuoi, lo puoi fare all’infermiera del Brooklyn Hospital. Insomma, detta mezza parola, chi vuol capire capisca. Mi schiaccia l’occhio. Che personcina a modo.

Inizia la partita. Siamo negli USA, il campo è quello da football americano, ci sono le aste del touchdown ma mancano le porte, quindi si rimedia con gli zaini, stile oratorio vecchi tempi. La mia squadra sembra un frappè di mappamondo. Io sono l’unico italiano in campo. Schieriamo, oltre me, un turco (Erkan), uno spagnolo, due brasiliani, un asiatico naturalizzato statunitense (non ci facciamo mancare niente), un portoricano, tre americani ed un giapponese dalla faccia fessa. Ovviamente chi era il fenomeno della squadra? Il giapponese dalla faccia fessa. L’unico a cui erano permessi i tunnel e all’inizio non capivo perché. Poi ho realizzato. Lui, che di nome fa Kazui, muove talmente veloce il pallone che è capace di fartelo passare fra le gambe tre, quattro volte nel giro di cinque secondi senza farti capire nulla. Il massimo lo ha raggiunto quando su una spazzata di Erkan (ho insegnato a tutti, da Tokyo a New York, la dicitura “arrocca sta palla”) ha stoppato la palla, in scivolata, di tacco! Roba che sono rimasto fermo un minuto ad interrogarmi cosa diavolo giocavo a fare io. Ora capisco perché Holly e Benji sono giapponesi!
Sulla prima azione Kazui si inventa due finte delle sue e mi lancia la palla rasoterra d’esterno mettendomi solo davanti al portiere. Io alzo la testa e vedo accorrere Erkan come un espresso direttamente da Istanbul. Sarebbe un peccato sprecare quella corsa forsennata. Aspetto l’uscita del portiere e tocco la palla nel mezzo. Arkan entra in rete (si fa per dire!) con tutta la palla. Ci scambiamo il “cinque”. “Allora non ce l’hai con me per quella partita col Fenerbache…” mi chiede sorridendo. “Ma figurati, acqua passata…” gli rispondo di rimando. (Staminchia – detto fra di noi – la prima volta che giochiamo contro lo sommergo di dribbling!).
Dopo un pò, in seguito ad un contrasto molto dubbio, Julian lo spagnolo, vola a terra. Fischi e pernacchie di tutti. “Sei un italiano!” vola dal fondo. Rimango perplesso. Vorrei rispondere ma la cosa triste è che non so come. Hanno ragione, ed all’estero paghiamo in sfottò la nostra fama di tuffatori.
Sull’azione seguente però, nel mio piccolo, ce la metto tutta per far alzare la reputazione estera alla nostra Nazione pallonara. Entro in area e Mike, americano quattro stagioni di 2 metri di altezza per 100 chili di muscoli mi asfalta per terra. Mi guarda e mi chiede “Is it penalty?”. Mi alzo, gli do una pacca sulla spalla e gli rispondo “No man, it’s just Soccer!” e corricchio verso il centrocampo. Gli altri mi guardano sorridendo. Forse hanno capito che gli italiani non sono tutti uguali. Mike mi raggiunge, mi da il “cinque” d’ordinanza e però esagera. Guarda la mia maglietta del Palermo e gli scappa un sorrisino alla vista del rosa. Gravissimo errore.
Sull’azione seguente Kazui sbaglia un passaggio elementare. In buona sostanza spazza una palla in area con una semirovesciata volante che, abituato a vedergli fare numeri pazzeschi, mi aspettavo mi mettesse sui piedi. Invece, scarsone (!), la mette troppo lunga. Mike la stoppa. Io parto coltello fra i denti, sangue agli occhi, arterie pulsanti e muscoli tesi verso di lui e gli entro in scivolata. Palla pienissima, intervento pulito. Mike la montagna vola a terra rotolando due metri più avanti. Mi fermo, lo guardo, gli sorrido e gli dico “Do not joke with my shirt, man!”. Lui mi guarda da terra per qualche secondo e poi ride. Ha capito. Io rispetto le loro regole, loro devono rispettare il mio rosanero.
A metà partita la stanchezza si fa sentire. Chiedo quanto stiamo ma Pablo, uno dei brasiliani che evidentemente ha capito tutto del calcio, mi risponde che qua nessuno guarda il punteggio. Si gioca solo per divertirsi. Ed io gioco da classico centromediano mezzapunta metodista d’attacco laterale con licenza di offendere… a parolacce. Insomma, dove gioco non lo capisco neanche io. Ma da italiano doc di tattica ne capisco più di tutti che pendono dalle mie labbra quando spiego i concetti basilari di “diagonale” e “marcatura a uomo”. Mi passo la mano fra i capelli. Mi mancherebbe solo la “pelata” e mi sentirei Ballardini.

Le luci artificiali dopo due ore di partita cominciano a spegnersi lentamente. E’ ora di andare a riposarsi e bere giusto quei tre, quattro litri d’acqua che ti mancano in corpo. Enricuzzu dal campo di Brooklyn ne esce con tante amicizie e con due gol da incorniciare. Entrambi di testa, che sembra una barzelletta se si considera che, in offesa ai miei 180cm, con la capoccia usualmente non ne becco una manco a pagarmi. Uno su stacco imperioso e un altro addirittura su un tuffo a volo d’angelo che posso raccontare a nonna quando torno a casa in Italia. Tutte le medaglie però hanno due facce. E grazie a queste prodezze, accoppiate al mio passaporto italiano, ora tutta Brooklyn mi chiama Luca Toni. Che ad un palermitano, si sa, è un po’ come dire stronzo. C’est la vie. Anzi, come dicono da queste parti “It’s just Soccer!”.

Enricuzzu

(nella foto) Enricuzzu prima del match, una fede, una passione. Ovunque nel Mondo!

domenica 12 ottobre 2008

San Diego: sole, surf e... salentini fancazzisti!

San Diego (CA),
October 12th

E' la grande sfida americana. Per chi non sapesse, West Coast ed East Cost, per il popolo a stelle e strisce, suona un pò come Settentrione e Meridione per il nostro Bel Paese. Stili di vita diversi, modi di approcciarsi alla realtà quotidiana opposti. E se a New York la gente sfreccia a cento all'ora in mezzo ai taxi, in California la gente si prende il suo tempo. Si alza con calma e con calma si tuffa in acqua... Non è dato sapere quale dei due stili di vita sia migliore, ma una chiaccherata con Paolasso - ormai mio fratello acquisito - non ce la toglie nessuno. In collegamento diretto Times Square e Pacific Beach si uniscono, giusto per regalarvi due risate...

Enricuzzu: "Paolasso, ti ho disturbato?"
Paolasso: "Disturbato no, ma mi fa strano scrivere una mail dal momento che qui sono tutti un po' disconessi dal mondo... mi sono dovuto abituare (con dispiacere!) al 'Take it Easy'!"

E: "A surf come siamo messi?"
P: "...beh, diciamo che la prima lezione a Pacific Beach con gli occhi puntati addosso di decine di surfisti professionisti non è proprio stato il massimo... soprattutto quando l'istruttore, pagato profumatamente, commenta il tuo primo approccio alla tavola dicendo che anche una tartaruga farebbe meglio!"

E: "Cosa ci fa un salentino in California?"
P: "Esattamente quello che ci fa un palermitano a New York con l'unica differenza che il salentino è abbronzato e fancazzista mentre il palermitano lavora assai! Such is life!"

E: "San Diego vs New York... chi vince?"
P: "Non ti rispondo neppure... mi limito solo ad un dato... 360 giorni all'anno di super sole... e gli altri 5? Semplice sole!"

E: "Le mille luci di Times Square però li non ci sono..."
P: "...si, ma ci sono le mille luci dei falò la sera ad illuminare la baia!"

E: "Io voglio andare a vivere in California e sono a New York. Tu vuoi andare a vivere a New York e sei in California. Ci prendiamo in giro?"
P: "Diciamo che potrei rivedere la mia posizione a riguardo... quasi quasi..."

E: "Raccontaci qualcosa di californiano..."
P: "Ho conosciuto il classico siciliano emigrato all'estero 36 anni fa! Un certo Salvatore Vanella che dopo essersi presentato dicendo di essere originario di Aspra ha voluro chiarire che è scappato dal suo paese in quanto il più pericoloso personaggio della zona ("Eru u primu camurrista!")! Da classico italiano mi sono permesso di chiedere se conosceva un certo Genuario, anch'esso di Aspra e non potevo ricevere rispota più eloquente: "U Genuariu... minchia, ci diedi u primu pugnu !!!". Insomma siamo diventati amici... ma soprattutto ora ho le spalle coperte!"

E: "Un siciliano a New York per promuvere gelati e sorbetti... ci potresti credere?"
P: "Ma non lavoravi in un panificio ?!?"

E: "E se il carretto dei gelati si spostasse dalle tue parti?"
P: "Beh, considerando il peso forma degli abitanti di San Diego mi sa che il business girerebbe bene... qui i gelati se li mangiano 6 alla volta!"

E: "Cosa ti manca dell'Italia? (tieniti quella lacrimuccia che non ci crede nessuno...)"
P: "Il McCicken Menu del McDonald di Piazza Duomo! Amoreeeeee scherzo... manchi solo tu qui !!!" (...a scanso di imbarazzanti equivoci, il riferimento è a Roberta, storica zita! ndr.)

E: "Salutaci come ci saluterebbe un californiano..."
P: "Con il DAP, ossia braccio alzato a dare il 5 facendo attenzione a nn farlo con il palestrato di turno, altrimenti il rischio borsite è assicurato! In più è assolutamente d'obbligo il vero saluto californiano ossia 'Have a Blast' che nello slang locale vuol dire 'divertiti il più possibile', ossia... devastati pure tanto lo fanno tutti! Io invece cerco di diffondere il più salentino dei saluti... STATTE BBONU!"

Da San Diego è tutto, cari amici... per quanto riguarda me, corro a prenotare il biglietto: la California mi aspetta!

(nella foto) Paolasso gioca a fare Mitch Buchannon su una torretta "Baywatch Style"

lunedì 6 ottobre 2008

Coney Island. Profumo d'Oceano.

Coney Island, Brooklyn (NY),
October 5th

Immaginate un porticciolo di mattina. Il lungo molo che si incunea fin dentro le profondità del mare. Il sole, limpidissimo, sembra colorare d’oro le travi di legno. La spuma delle onde accarezza la sabbia timida, ritirandosi subito indietro. Più in la, qualche pescatore, in silenzio, tenta di carpire i segreti dell’Oceano. Coney Island, punta estrema di Brooklyn, si presenta così, come sembrasse un quadro dipinto ad olio su una tela immaginaria.
C’erano pochissime persone Domenica mattina sulla Surf Avenue (un nome, un programma). Come se i newyorkesi volessero custodire il loro piccolo segreto. Il segreto di chi sa, probabilmente, di avere la città al centro del mondo. Capace di contrapporre, senza logica alcuna, ai grattacieli della Fifth Avenue l’immenso Central Park e alle mille luci di Times Square chilometri di spiaggia selvaggia, persa nel sussurro dell’Oceano Atlantico.

Coney Island è leggenda. Nel 1916, da queste parti, nacque l’Hot Dog. Il celebre panino, figlio di Nathan’s, padre anche del World Contest che si svolge ogni anno. Da tutto il paese arrivano qui giovani eroi armati di stomaci d’acciaio pronti a sfidarsi all’ultimo Hot Dog. L’anno scorso, insieme a Coney Island, divenne leggenda anche Joey Chestnut, un alieno dalle sembianze umane, capace di farne sparire a suon di morsi ben 66 (SESSANTASEI!) in meno di un quarto d’ora. Joey si è riconfermato campione quest’anno, mangiando per ben 7 panini in meno. Evidentemente perché ancora non aveva digerito quelli dell’anno prima.
Le poche nuvole nel cielo sembrano disegnare forme astratte quando io fisso, disdetto, un cartello che sembra ammonirmi. Bandiera rossa. Non ci si può fare il bagno. E a me non resta che sedermi su una panchina del molo perso nei miei pensieri. Che profumo ha l’Oceano? Secondo me forte. Come un sapore selvaggio, nascosto ma allo stesso tempo pronto ad infrangerti con la sua potenza.
Una ragazza di queste parti mi dice con un sorriso ed un briciolo di orgoglio che se Parigi è la Francia, allora Coney Island, fra Giugno e Settembre è il mondo. Ok, facciamo tanto orgoglio. Quelle parole le ho ritrovate qualche minuto dopo su un murale davanti la spiaggia. George Tilyou, l’autore, è riuscito a tramandare negli anni, attraverso un graffito, i sui sentimenti. E’ li che ho capito l’importanza delle parole. Che non devono mai essere risparmiate. Perché ciò che non vogliamo dire oggi, domani avremo il rimorso di non poterlo più fare. Non conservate le parole dentro di voi, amici miei. Lasciatele libere di librarsi per aria come i pellicani che al tramonto cercano di afferrare quel rosso che sa d’infinito. Oggi vorrei dire tante cose, rivelare inconfessabili segreti ma non posso più perché ieri, quando potevo, ho avuto paura. E a nulla serve oggi perdersi nella lacrima di un ricordo se non a darsi forza per il domani. Domani che, a Coney Island, sarà un’altra magia.

Quando salgo sulla metropolitana per tornare verso casa, i sottili raggi del sole che filtrano dai vetri mi socchiudono gli occhi facendomi scivolare nel sonno. Dopo una quarantina di minuti le voci squillanti di Times Square mi riportano alla realtà. Sono un po’ triste. Mi alzo ed una manciata di sabbia mi cade dalle tasche. Sorrido. No, Coney Island non è stata solo un sogno.

Enricuzzu


(nella foto in alto) Il Murale di George Tilyou
(nella foto in basso) Enricuzzu pensa di infrangere le leggi statunitensi...

venerdì 3 ottobre 2008

Harlem. Il quartiere nero.

Harlem (NY),
October 3rd

Harlem non ha un segnale d’entrata. Non ha un cartello con scritto “Benvenuti a…”. Ad Harlem - il quartiere nero di New York - ci si entra e basta, varcando una linea immaginaria a nord di Manhattan. Te ne accorgi quando alzi la testa e capisci di essere l’unico uomo bianco nell’arco di chilometri.
Avevo pensato di prendere una stanza in affitto da queste parti. In fondo - mi dicevo - io con i coloured (e chiunque diverso da me) mi ci trovo benissimo e gli affitti sono anche più economici. “Non è questione di bianchi o neri...” - mi ha avvertito un mio amico afroamericano che vive nella City da diversi anni - “…è questione di persone. E ad Harlem non ci sono belle persone.”. Un monito che sa tanto di uomo avvisato mezzo salvato, che mi ha convinto a buttare l'occhio altrove.

Harlem però è diversa da com’era un tempo. Vent’anni fa, per intenderci, ai bianchi era davvero vietato l’acceso. O almeno, l’acceso era consentito… era l’uscita che era impossibile. Se non dentro una cassa in mogano.
Da Harlem proviene e prende il nome quel gruppo di ragazzi che qualche decennio fa si ribellò alle leggi della NBA che consentivano l’acceso al pallone da basket solo ai bianchi. Nacquero così i Gobetrotters, in seguito ad un sacrosanto sentimento di rivalsa. E di sfida. “Il basket è nero” si diceva in tono provocatorio facendo piroettare la palla con traiettorie assurde. Qualche anno dopo, quella stupida legge dal sapore razzista si sgretolò come un cracker ma gli Harlem Globetrotters rimasero uniti, in solitario, continuando a girare il mondo con i loro spettacoli pirotecnici che auguro a chiunque di vedere dal vivo almeno una volta (come ho avuto la fortuna io a Milano).
Harlem è cambiata però, dicevo. Ora i bianchi possono entrare. C’è minore criminalità anche se non è del tutto scomparsa. E di questo “avvicinamento” al resto di New York si deve riconoscere il merito all’ex sindaco, italoamericano, Rudolph Giuliani. “Uno totalmente pazzo” mi spiega sorridendo il mio Boss. Pazzo perché aveva in testa solo il desiderio di migliorare la città, a qualunque costo. Pazzo perché più volte è stato minacciato dalla Mafia ma non ha mollato la presa. Pazzo perché ha visto i suoi possibili killer in faccia senza fare una piega perché il suo desiderio di cambiare era più forte di qualsiasi paura. E qualcosa, Rudolph Giuliani, l’ha cambiata davvero ad Harlem. In otto anni di carica è riuscito a diminuire sensibilmente il gap che separava il quartiere nero dal resto di Manhattan.
Un italiano con le palle” lo definisce, in un italiano stentato, Rihoni, il nostro autista dominicano. Tanto da far passare come “uno qualunque” l’attuale sindaco. Uno di cui non ci si ricorda neanche il nome.

Scendendo la Broadway e scalando le street dalle triple alle doppie cifre, quasi non ti accorgi di uscire dal quartiere. Varchi per la seconda volta quella linea immaginaria e ti immergi di nuovo nella frenesia di Manhattan. Mentre di Harlem si sfumano i contorni nello specchietto retrovisore.

Enricuzzu

(nella foto in alto) Murale della Graffiti Hall of Fame ad Harlem
(nella foto in basso) Murale esposto nella stazione di Polizia ad East Harlem.

mercoledì 1 ottobre 2008

NBA. Where Amazing Happens.

Manhattan (NY),
October 1st

Quando varchi quelle porte scorrevoli sulla 5th Avenue, capisci perché gli americani li definiscono “I supereroi con pantaloncini e canotte”.
Sulla famosissima strada newyorkese, all’angolo con la 52nd Street c’è il paese dei balocchi per gli amanti del Basket a stelle e strisce. L’NBA Store, un qualcosa di così vario che non ti basta un giorno a visitarlo tutto, ti entra dentro come pochi negozi al mondo. Neanche fai in tempo ad entrare che ti si piazza davanti una statua di Yao Ming, stella cinese degli Houston Rockets, interamente fatta coi lego. “Grandezza naturale” mi dice la commessa con un sorrisino, che tradotto significa 2.29 metri di cristiano. Roba da tirare lo sciacquone sopra il luogo comune che i cinesi sono tutti tappi.
Supereroi con pantaloncini e canotta. Capisci cosa vuole dire la gente proprio se fai il paragone con le tue stelle del calcio. Gente dotata di tecnica sopraffina ma che sembra uguale a te. Prendi un Fabrizio Miccoli, uno che col piede potrebbe anche dipingere un quadro. Uno che lo incontri per strada e lo vedi quasi come un ragazzetto uscito dal Liceo. Le stelle delle pallacanestro invece hanno dimensioni spaventose. Portano misure di maglie fatte apposta per loro ridicolizzando la tua squallidissima “M”. Oltre ad una quantità spropositata di muscoli, sfoderano dimensioni corporee esagerate. Che ti chiedi chissà, forse gli alieni ci hanno già invaso.
Era questo il dubbio che mi attanagliava mentre fissavo quel canestro posto al centro del negozio. Altezza regolamentare of course. Che per toccare anche solo il retino mi serviva un treppiedi. Io, miseramente “basso” 1.80m (esattamente quanto Chris Paul, splendido playmaker dei New Orleans Hornets, da me considerato “tappo” in TV paragonato ai suoi compagni di squadra). E se di miseria si parlava prima, non resta che farsi due risate se la mano di Enricuzzu (1.80m per 70kg) si paragona al calco della mano di Shaquille O’Neal (2.16m per 148kg) stella dei Phoenix Suns. Vedere la foto sopra per credere. Immagino solo le presentazioni. “Piacere, Enricuzzu” – “Piacere, Shaq”. Strette di mano. Crak! Dov’è l’ospedale più vicino?

PS. Il video sotto ritrae in una campagna promozionale la stella dei "miei" Los Angeles Lakers, Kobe Bryant (MVP 2008). Uno al cui la natura ha donato 198cm di altezza, e una volontà che gli permette un'elevazione terrificante per compiere pazzie del genere... anche solo per "finta" !



Enricuzzu

mercoledì 24 settembre 2008

Ground Zero

Manhattan (NY),
September 21st

E’ difficile da spiegare, ma mentre stai scendendo lungo la Broadway Avenue capisci che ti ci stai avvicinando anche senza chiedere informazioni. Senti Ground Zero vicino. Lo senti quasi dentro di te. Lo avverti perché, inspiegabilmente, New York fa sempre più silenzio. Il traffico sembra quasi ovattarsi dentro una coperta invisibile. La folla di gente che corre sui marciapiedi si dirada e comincia ad andare più lenta. Poi controlli la cartina. Dovresti essere arrivato, ma sei confuso. Pensi. Non riesci a vedere niente. E’ in quel preciso istante che Ground Zero dopo esserti entrato silenziosamente dentro, ti esce prepotentemente dagli occhi. Niente vedi perché niente c’è.
Un tempo il sole faceva fatica a farsi spazio in mezzo quelle due enormi gemelle che sembravano solleticare il cielo. Oggi il sole splende triste, immenso, senza alcun ostacolo, sul silenzio surreale del Word Trade Center. Un silenzio dentro il quale ti pare di sentire rumorosissime le urla di chi, quell’undici Settembre, il sole lo vide per l’ultima volta. Le urla ormai silenziose in quel luogo dove sette anni fa gli aerei volarono un po’ troppo bassi.
Su una targa al muro campeggia la scritta “We Remember”. Il grido di un’America che non vuole scordare chi, suo malgrado, è divenuto immortale un giorno in cui avrebbe solo voluto prendere la metro per tornare a casa. Ma non è riuscito a varcarne le porte.

Seduto su una panchina nel parco vicino, ammiro la skyline (il contorno dei grattacieli) della costa opposta del New Jersey. Un tempo a quei grattacieli si contrapponevano, imponenti, le Twin Towers. Oggi il nulla. E ripenso a quel giorno, quando delle mani su un computer, che probabilmente non avranno mai una faccia, (testimonianza di mio fratello, che all’epoca lavorava per una Banca londinese) ordinarono un’incredibile vendita di massa di obbligazioni. Così, senza motivo. Qualche ora dopo due boeing si abbatterono contro le Torri Gemelle facendo crollare, come mai nella storia, Wall Street. E nel silenzio del World Trade Center una terribile domanda non avrà mai risposta: quel dramma fu davvero inaspettato?

Enricuzzu

(nella foto) Commemorazione delle Twin Towers

domenica 21 settembre 2008

Brooklyn: un ponte fra l'Italia e New York.

Brooklyn (NY),
September 19th

Finalmente ci siamo. Si comincia a masticare a masticare un poco di azienda, obbiettivo primario direi, per il quale ho stampato il timbro USA nel mio passaporto. Brooklyn di mattina splende come se fosse un altro posto. Lontano dalla frenesia di Manhattan, da queste parti non trovi gente che corre anche quando mangia, non trovi pazzi scatenati che saltano per strada urlando “taaaaxi!”. Qui la gente si prende il su tempo, per quanto è possibile, ma non smette di fare il suo lavoro.
La Dolce Amore si trova qua. Proprio subito dopo il ponte. Mr. Arpaia è il classico napoletano bonaccione, grassottello e piacione. Insomma uno che ti ispira fiducia subito. “Vieni con me, Enrico.” Mi dice in un napoletano un po’ americanizzato. In fondo gli anni oltreoceano (più di trenta… io non ero neanche nei pensieri di Cristo) si fanno sentire. Mi fa entrare dentro la fabbrica e mi mostra le prelibatezze che la Dolce Amore produce. Gelato, dessert, ma soprattutto pasta fresca di ogni tipo. Ed è quando mi mostra i ravioli che Mr. Arpaia si ferma quasi incantato. Li scruta, ne prende uno e quasi lo accarezza come un piccolo tesoro. Se noi italiani siamo famosi per la pasta - mi spiega - è perché ci teniamo così tanto. E anche perché per produrla serve ognuno di questi macchinari che da solo costa quanto una Ferrari, continua. E giù la risata.

Per quanto fossero interessanti tartufi e tagliatelle però, a me serviva guardare altro. E per ciò, salutato Mr. Arpaia, mi metto in macchina con Marcello, suo figlio, per andare a consegnare dei prodotti e andare a fare relazioni pubbliche con i clienti di Manhattan. Per quanto bella fosse Brooklyn infatti, il business vero è sempre nella City o nel New Jersey, stato vicino reso famoso dai Soprano’s. Per arrivare a Manhattan il ponte è d’obbligo. Lungo il Brooklyn Bridge (che fa compagnia al Williamsburg e al Manhattan Bridge, gli altri due ponti che collegano i due borough) capisci perché lo scelgono due volte su tre per stampare le cartoline di saluti da New York. Semplicemente stupendo. Come un ponte di infinite possibilità che ti fa sognare sfrecciando nel traffico. Letteralmente sfrecciando, perché l’autista dell’azienda, un simpatico dominicano che parla un diffusissimo “spanglish” da queste parti (misto fra inglese e spagnolo che io – mica scemo – parlo entrambi), da quel che ho visto mancava poco e per guadagnare qualche secondo si infilava su due ruote fra un taxi e un pullman.

Vi racconterei dei club privati o dei ristoranti che abbiamo girato per promuovere i prodotti ma forse vi annoierei e – anyway – il tempo è tiranno. Di questa Brooklyn mi resta una simpatica fotografia. Un posto così lontano e allo stesso tempo così vicino alla City dove fra un parco e l’altro puoi trovare la magia dei ravioli di un simpatico napoletano che ha esportato la sua terra sul suolo americano. Chissà che non trovi una stanza dove abitare proprio da queste parti. No, non sarebbe affatto male percorrere questo ponte ogni mattina.

Enricuzzu

(nella foto) Il ponte di Brooklyn

venerdì 19 settembre 2008

American Burger: un popolo in un panino!

Manhattan (NY),
September 18th

Girando un pò di qua, un pò di la fra i borough (quartieri) di New York ho dovuto fare di necessità virtù e buttato dentro il mio stomaco le più strane prelibatezze che la Grande Mela potesse offirmi. Ma una cosa, ho realizzato, ci rende tutti americani al primo mozzico. Solo una cosa riesce ad unire tutta la nazione in un boccone. Entri in un fast food e urli a sguarciagola: "An american burger !!!". Se non ti lanciano una padellata in faccia subito, sei ufficialmente entrato nel mondo a stelle e strisce.
Già perchè il burger nelle sue varianti "cheese" e "chicken" è quanto di più caratteristico può vestire la Nazione. In un panino che trasborda entusiasmo, forse al limite dell'esagerazione, il popolo yankee ci si riconosce. Capiamoci, un panino caprese mangiato in riva al mare in Italia lo addenti delicatamente... un american burger lo devi mozzicare spalancando le fauci al limite del blocco mandibolare, buttare gli occhi di fuori e magari se ti riesce fare qualche rumore strano. E' la sintesi di una Nazione che sulla forma punta tutte le sue fiches, sull'apparenza gioca tutta la posta. Devi fare vedere che esageri se vuoi essere statunitense. Gli altri possono anche accontentarsi.

Cosa fai poi se ti ritrovi solo, sperduto, a girovagare per Manhattan? Semplicissimo, conosci persone. E alla mia faccia da provolone semipiccante devo la conoscenza di Sheena e Shing, studentesse, anglo-indiana la prima, mezza cinese mezza non cosa la seconda. Ma entrambe con la voglia di sentirsi statunitensi anche solo per un mozzicone di burger. In fondo, da queste parti dicono che se ti inchiappi tutto con il ketchup, guadagni punti. Ti meriti quasi un applauso. "You got the point!". In pratica un altro mondo.
E bella forza, mi serviva un panino pieno di porcate per capirlo!

Enricuzzu

(nella foto) In un fast food sulla Broadway Avenue con Sheena e Shing

giovedì 18 settembre 2008

Central Park

Manhattan (NY),
September 17th

Ed eccomi qui. Fresco e spettinato, ma sopratutto atterrato in una New York che sembrava proprio non aspettarmi.
Onestamente, al secondo giorno a Manhattan, non saprei cosa mi ha spinto verso quel posto. Una forza inspiegabile mi ha trascinato come d'impulso al primo momento libero. In men che non si dica, mi sono ritrovato dentro Central Park, nel cuore della Grande Mela.
Non so perche' sono cosi' attratto dal verde, forse perche' dove ho vissuto ce n'e' sempre stato poco, fatto sta che appena mi trovo in un posto che di verde ne ha disegnata anche solo una pennellata, mi ci fiondo. Ancora dalle parti di Green Park a Londra, ricordano con terrore un giovincello che correva palla al piede spaventando bimbi e piccioni!

Central Park: il cuore di una Manhattan che non sta ferma neanche quando si rilassa. Un fiume impressionante di persone che corrono, chi in canotta, chi sculettando, chi affibbiato come un esquimese a Natale. Tutti che corrono. Chi verso destra, chi verso sinistra, chi verso il laghetto, chi verso le viscere del parco. Quasi mi sembrava di riuscire a sfiorare per un attimo i pensieri delle persone. Ognuno con una storia tutta sua, ognuno con problemi che chissa' mai non avrebbero potuto trovare una soluzione all'ombra di qualche albero. Riuscivo a sfiorare i loro pensieri che pero' lesti svanivano quando l'incrocio finiva e la gente si perdeva nel verde.
Mentre passeggiavo mi sono imbattuto in una coppia di scoiattoli che zompettavano sul prato. E a quegli scoiattoli devo dire grazie. Grazie per avermi fatto scordare, anche solo per una decina di minuti, i problemi che mi sono caduti a valanga in meno di due giorni. La consapevolezza di star cominciando un'avventura forse piu' grande di me (cosi' urla lei) ma di non voler mollare (cosi' urlo io). La preoccupazione di non saper dove andare a dormire dopodomani, dato che il mio ostello e' prenotato per una notte ancora. Il sollievo di pensare che forse, se cambio ostello, non posso che migliorare, vista la gente che ho incontrato nel primo. Ma sopratutto, quella brutta sensazione che si ha quando ci si sente soli, in un mondo troppo grande per noi.
Se ho scoperto una cosa, dopo 23 anni grazie a New York, e' di avere un fratello. Sembra una banalita', ma le persone - specie quelle care - ti rendi conto di averle vicine quando sei lontano e loro fanno fatica a starti vicino. Fanno fatica si, ma non mollano. E credo che senza mio fratello, i contorni di questa avventura sarebbero stati ancora piu' duri.
Appoggiato alla ringhiera davanti allo splendido lago nel mezzo del parco, pensavo anche ai miei genitori, forse ormai troppo vecchi per stare dietro i sogni del figlio minore. Pensavo che loro, materialmente non avrebbero saputo come aiutarmi senza Andrea (mio fratello). Non capiscono molto di vita all'estero e devono combattere gia' con tanti problemi nel quotidiano... pensare ad un figlio oltreoceano non e' per nulla facile, anzi una preoccupazione in piu'. E lo sentono. Lo avvertono ed io di conseguenza. Diecimila telefonate al giorno, tante ricariche tempestive del cellulare, mi stanno vicino come possono. Ma la loro frustrazione nel non sapermi aiutare a cercare un appartamento, nel non saper come convincere il mio tutor aziendale a darmi un mano, nel non saper anche solo come bloccarmi un ostello per una settimana di fila, la sento sulla mia pelle. E mi piange il cuore. A mio fratello l'ennesimo compito: asciugare le lacrime di mia madre e rincuorare mio padre. La prima, spaventata a morte per il "suo bambino", il secondo, uomo che si e' visto cancellare tutto d'un colpo le recenti turbolenze col sottoscritto, giocoforza.

All'ombra di un albero, in mezzo alla gente che correva veloce, fissavo i riflessi dei grattacieli di Manhattan sull'acqua. Quell'acqua magica dal quale sembrava nascere un mondo intero. Il sole ormai aveva timbrato il biglietto e stava andando a riposare, mentre io confermavo i miei sospetti. No, New York proprio non mi stava aspettando ed una volta arrivato non mi stava neanche degnando di uno sguardo. Ma a me piace credere che forse, mi stava spiando nascosta dietro qualche foglia in attesa della mia prossima mossa, per vedere se la merito davvero. Per vedere se riusciro' a crescere con la citta' e togliermi i panni del "troppo piccolo" in un mondo "troppo grande". In fondo, se proprio si vuole, Central Park si gira tutta in poco tempo. E Central Park, altro non e' che New York, nascosta in un magico filo d'erba.

Enricuzzu

(nella foto) Central Park, Manhattan (NY)

giovedì 11 settembre 2008

September 11th, 2001


Ricordo che quel giorno stavo giocando a ping pong con Gianluca. C’era un po’ di vento e la pallina spesso andava per i fatti suoi. Dovevo studiare per prepararmi bene al quarto anno di liceo che bussava alle porte, ma non me ne fregava nulla. Quel giorno come tanti altri, l’unico problema della mia vita era riuscire a fare quella battuta imprendibile ad effetto. E fregare il vento.
Mia mamma mi chiamò dal terrazzo ed io feci finta di nulla. Diceva che in TV stavano facendo qualcosa di strano. Mi richiamò e brontolai. Salii con Gianluca e mi portai dietro la racchetta. “Tanto scendiamo subito”, pensai.
Bevetti un bicchiere d’acqua e accesi la TV. Vidi macchine della polizia, gente che correva. Cambiai canale, ma facevano sempre la stessa cosa, sempre New York inquadrata. “Che ampia scelta di programmi!” esclamai ironico continuando a cambiare. Poi lo vidi. Vidi un ragazzo che si lanciava nel vuoto da un palazzo in fiamme. Non so come, ma sentii le sue urla dentro me. Mi si gelò il sangue. Un brivido ghiacciato mi percosse la schiena e mi arrivò alla mano, facendo crollare la racchetta a terra. In un lampo capii tutto. Quel giorno, in cui il mio unico problema era come colpire bene la pallina, era l’11 Settembre 2001.

Duemilanovecentonovantadue morti. Scrivere il numero non rende per nulla. Lo si deve leggere per esteso, lentamente, e provare quel retrogusto amaro, per ricordare l’entità del dramma. Quel dramma che mise nuovamente il mondo davanti la sua coscienza. Quel dramma che sancì per l’ennesima volta la sconfitta dell’uomo su se stesso. La sconfitta di una Nazione, l’America, che ha pagato con la vita della sua gente le colpe di chi si vergogna ad ammettere di aver sbagliato. La sconfitta di un popolo, quello islamico radicale, che uccide due volte con la stessa mano: quando leva la vita agli uomini e quando infanga la religione gridando al suo nome. La sconfitta di un pianeta intero, che si è affrettato a schierarsi dall’una o dall’altra parte, senza chiedersi veramente il perché di tutto, almeno per un attimo.
Quell’attimo, e forse qualcosa in meno, che hanno avuto le persone a bordo degli aerei andando incontro al loro destino. Quell’attimo, che hanno avuto quelle altre persone il cui destino se lo sono visti schiantare in faccia. Un attimo per chiedersi perché. Un attimo per chiudere gli occhi. Un attimo per pregare.
Duemilanovecentonovantadue attimi. Così, tutto d’un fiato, persi in una lacrima, che a distanza di sette anni non va dimenticata.

Spensi il televisore. La racchetta mi guardava da terra allontanarmi verso la porta di casa. Uscii nel terrazzo e mi affacciai al balcone senza dire una parola. Una goccia mi sfiorò la guancia. Alzai gli occhi e vidi il cielo piangere. Era arrivato l’11 Settembre anche da me.

Enricuzzu

martedì 9 settembre 2008

Enricuzzu a stelle e strisce


Era un poster un po’ sgualcito. Appeso al muro, probabilmente per nascondere qualche crepa. Ma quando lo guardavo, da piccolino, alle crepe non pensavo proprio. C’era disegnata la Statua della Libertà, il cielo, è un po’ di verde. Io chiudevo gli occhi e sorridevo. Neanche il tempo di accorgermene ed avevo messo piede negli Stati Uniti, uno dei sogni nascosti nel cassetto del mio cuore.
Bastava poco però per riportarmi alla realtà. Spesso anche solo un soffio di vento sulle guance. Ero di nuovo a Palermo, disteso nel letto della mia stanzetta. E forse tiravo un respiro di sollievo. Già perché da piccolino, Palermo proprio non volevo lasciarla. Avevo paura di mollare tutte quelle ancore, sentimentali e non, che mi tenevano inchiodato alla mia terra.
Quel poster era magico proprio per quello. Perché raggiungevo i miei luoghi stupendi dalla mia stanzetta. Poi un giorno, qualche anno più tardi, decisi che quelle ancore andavano sganciate. Una ad una, magari con qualche lacrima in mezzo. E cominciai a nuotare da solo, non ancora maggiorenne verso Milano (scherzo, ho preso l’aereo!). Oggi, stacco l’ennesima, pesantissima, ancora. Ho deciso di smettere di sognare, aprire gli occhi e afferrare il mio sogno. Il 16 Settembre un aereo mi porterà prima a Londra e poi al JKF di New York City.

Quasi 3 mesi sul suolo americano per un’opportunità irrinunciabile. Uno stage che mi son cercato da solo, che volli fortissimamente volli; un simpatico imprenditore, Marcello, che mi ha dato virtualmente la mano e mi ha detto: com’on, ti aspetto. Così, semplicemente. Ed io così, semplicemente, sto saltando l’oceano. Senza attualmente avere la benché minima idea di dove andrò a vivere ma con l’idea di ciò che dovrò fare. Un mazzo grosso così. Aiutare Marcello e la sua azienda, cooperare con l’azienda di mio fratello per aprire una porta di business a New York, trovare un lavoretto part-time la notte per mantenermi, studiare per due esami che a Dicembre non potrò fallire e cominciare la tesi. Tutto in 90 giorni. Tutto tecnicamente impossibile. Come mi hanno detto, meravigliati, oltreoceano. Già perché vengo a scoprire anche che loro, gli americani, organizzano tutto prima, non lasciano mai nulla al caso. Noi italiani invece, storicamente, prima ci lanciamo nel vuoto e poi controlliamo di avere il paracadute allacciato. Come quel mio amico che è volato in Australia, senza uno straccio di certezza, andando a tagliare pomodori in un campo per avere qualche spicciolo.

Ed io, ancora più di ieri, oggi mi sento italiano. Di quelli folli. Di quelli che hanno capito che a volte, i nostri sogni ci mettono alla prova per vedere fin dove saremmo in grado di arrivare per raggiungerli. Perché a volte i sogni ti capitano volutamente nei momenti più difficili da gestire. Perché a volte i sogni ti passano vicini sorridendoti ma tu non hai il coraggio di lanciarti per afferrarli.
Sono passati oltre 10 anni da quando sognavo guardando quel poster. Oggi il tempo dei sogni è finito. E’ tempo di aprire gli occhi e lanciarsi nel vuoto. E chi se ne fotte se non ho il paracadute.

Special Thanks: un ringraziamento particolare a Francesca, che quel pomeriggio in Università, fra un libro ed un cappuccino, mi ha spinto verso questa follia.

Enricuzzu

venerdì 15 agosto 2008

Ferragosto a suon di Elvis !!!

Chissà se il buon Elvis avrebbe mai potuto pensare che la sua "A Little Less Conversation" sarebbe stata interpretata, a distanza di anni, in una calda spiaggia di Cinisi...
Gente fuori di testa, gente con tanta voglia di divertirsi, very normal people per una sera esageratamente speciali !!!

Special Thanks: Giulio, ad un passo dalla distruzione totale la Ferragosto Night, superlativo regista di questo capolavoro (video sotto) oggi.

venerdì 1 agosto 2008

La Lanterna. Pizza, sfottò e cuore rosanero.


La Lanterna Rosanero non è sito, anche se ha il www. La Lanterna Rosanero è come un giardino, dove una decina di amici si ritrovano nelle pause della giornata e discutono di tutto ciò che gli passa per la testa. Che sia Palermo ovvio, o che sia - se si vuole - qualsiasi altra cosa. Perché in questo giardino di regole ce n’è veramente poche ma una su tutte: portare luce. La luce dell’amicizia.
Fra le mura invisibili della Pergamena (il nome del Muro) puoi trovare in poche persone, un’infinità di mondi. Puoi trovare l’astrofilo sognante, l’esperto informatico emigrato in Piemonte, l’operatore di Beirut, la timida cibernauta, l’universitario giramondo, l’architetto con un piede in Sicilia e l’altro in Scozia, il palermitano della Sardegna, quello di Francoforte, quello dell’Austria e perché no, anche il palermitano, semplicemente, di Palermo.
Si sono ritrovati tutti - o quasi - ieri sera, intorno ad un tavolo, in mezzo all’erba per mangiare una pizza e farsi quattro risate. Li ha radunati tutti ClaudioRN, da Lauriano (To) con furore, di ritorno per ferie nella sua terra fra le zagare ed i cannoli. Forse, quando sei anni fa, con altri giovani tifosi rosanero decise di creare “...qualcosa di nuovo”, neanche lui aveva pensato al Concorso che avrebbe preso vita un paio d’anni più avanti. “Indovina la Formazione” è il mix fra astuta abilità e sproporzionata fortuna. Ma soprattutto è il cofanetto d’oro delle risate dei lanternini rosanero, che fanno dello “sfottò” scaturito dalla competizione, la loro panacea vitale. 19 concorrenti. Obbiettivo: indovinare modulo, giocatori titolari, posizioni esatte, risultato e marcatori di tutte le 38 giornate di Campionato. L’ha spuntata Enricuzzu - che poi sarei io - il più abile ad anticipare le elucubrazioni tecnico – tattiche di Colantuono prima, Guidolin dopo e nuovamente la “tigna di Anzio” infine. Tanto di targa ricordo come premio ma soprattutto tanto, ma tanto sfottò.Questi sono i lanternini. Questa è la Lanterna Rosanero. Un posto che non avrà mai grandi numeri, e grandi numeri non mira ad avere. Un posto che non avrà mai una scelta di opzioni infinta come in molti altri siti, ne avrà mai news costantemente aggiornate. Ma semplicemente un giardino di amici, che sanno mettere sul web la sola cosa che li rende uniti: un cuore grande cosi. Ovviamente rosa e nero.

Enricuzzu

(nella foto in alto) Tizia, seconda classificata, consegna la Targa ad Enricuzzu
(nella foto in basso) I lanternini dopo la pizziata

domenica 27 luglio 2008

Tramonto di un sorriso a Lloret

Lloret de Mar (España),

Il sole era fortissimo. Non tirava tanta aria. Anche la brezza primaverile era andata in vacanza. I raggi dorati splendevano sulla pelle di Vanessa, facendola brillare di luce propria. Il fumo della sigaretta di Claudio, poco lontano, ne nascondeva abilmente i pensieri. Paolo e Roberta, abbracciati, disegnavano a piccole pennellate il quadro della dolcezza di un amore lontano. La Gazzetta di Giuseppe invece, era il simbolo dell’italiano all’estero che lascia comunque l’ancora a casa. Io, sdraiato sulla sabbia di Lloret de Mar, li osservavo con gli occhi socchiusi di chi guarda di lato un’avventura per paura di sfumarne i contorni.
Di quel pezzo di Spagna che non dorme mai ricordo le strade illuminate ad ogni ora. I sorrisi della gente che ti incrociava. Il sorgere di un sole imbarazzato che quasi si scusava per esser andato a dormire. Ricordo la folle schiuma fresca al Tropics che si mischiava alle gocce di sudore di un ballo nella notte. Ricordo i nostri sguardi complici, le battute, le risate. Ricordo l’acqua che ci tiravamo addosso. Ricordo la nostra voglia di divertirci, la nostra voglia di lasciarci andare, la nostra voglia, comunque, di stare insieme. E ricordo che proprio una sera di quelle capii, seduto a bordo piscina, che sognare è gratis. E’ svegliarsi che si paga. E spesso anche caro.
Ed è forse per questo che da qualche giorno su Lloret è sceso il tramonto, stavolta senza scuse. Il tramonto del sorriso di Federica, che Dio solo sa quanto vorrei rivedere. Almeno un’altra volta.

Enricuzzu

In memoria di Federica Squarise, brutalmente uccisa a Lloret de Mar, l'Estate del 2008

(nella foto) Lloret de Mar di notte

venerdì 4 luglio 2008

Mondello di notte


Mondello è tempesta di emozioni nella quiete di un’onda lenta. Terra di confine, persa nel tempo, dove si sposano dolcemente la felicità e la malinconia di un sogno nato al tramonto e morto all’alba.
Mondello è una passeggiata senza inizio né meta, lungo la costa delle proprie sensazioni. Con la spuma delle onde che, come una verità nascosta, ti accarezza i piedi, per poi riperdersi nell’immensità del mare. Follia che sfocia in desiderio. Desiderio che sfocia in passione. Passione che sfocia ancora in follia.
Mondello è chiudere gli occhi, riuscendo a sentire il sottile sospiro del can che dorme, immenso, dall’alto della baia. Quel cane che ogni tanto si materializzerà sulla spiaggia, nelle vecchie gambe di un randagio che incrocerà i vostri sguardi, con gli occhi di chi desidera solo un po’ di brezza notturna.
Mondello è passione sposata dalla luna ed amore consacrato dal sole. E’ mano che lenta scorre sulla pelle nel tempo che si ferma. Sono labbra che incontrano labbra, in un brivido caldissimo che ti gela la schiena. Mentre i granelli di sabbia ti sfiorano la pelle come piccoli segreti.
Come quello mai raccontato delle stelle. Che saranno sempre poche se voi, giovani sognatori, alzerete gli occhi alla volta celeste. Loro si saranno già tuffate fra le onde. Facendosi ammirare, impertinenti, come scintille a pelo d’acqua. Nella notte di Mondello, neanche loro resistono alla passione.

Enricuzzu

(nella foto) Mondello di notte, con primo piano di Monte Pellegrino, il 'can che dorme'.

lunedì 30 giugno 2008

¡¡ Campeones !!

Finalissima
Spagna - Germania 1-0
(F. Torres)

Da giorni ormai, la Spagna si sveglia la mattina canticchiandosi nelle orecchie il ritornello “podemos”. Vivere un sogno si può, specie se la notte non riesce ad uccidertelo. E il Paese si agita a mille, come una bottiglia di champagne pronta per essere stappata. Stavolta ci si può strappare di sopra l’etichetta di “belli ma perdenti”. Si, si può.
Una nazione che si riconosce negli occhi nel niño Fernando Torres quando scavalca Lehmann con quel pallonetto fatato mettendosi il dito in bocca. Una nazione giovane, come una bimba, gasata e pronta a spaccare l’Europa. Una nazione che fa del coraggio di Aragones la sua arma principe. Il coraggio di lasciare Raul, bandiera iberica, a casa. Il coraggio di schierare quella rivelazione di Senna a centrocampo (che Santa Rosalia gli illumini la strada per Palermo!). Il coraggio di far prendere fiato proprio a Torres quando occorre. Il coraggio di affrontare tutti a viso aperto, chiudendo i conti sempre nei 90’, tranne – e lo diciamo con sano patriottismo – che con quegli indiavolati Azzurri che poco ne hanno voluto sapere di lasciar facilmente libera la strada. Furono rigori, proprio quei rigori che fecero ruggire i guantoni del capitano Casillas, uno fin troppo bravo per non poter mettere sopra il camino un trofeo di questo genere. Una nazione che finalmente ha smesso di ammirarsi allo specchio arrivando in ritardo all’appuntamento con la storia.
Domani mattina la Spagna si sveglierà e per la prima volta non canticchierà il solito ritornello. Perché la notte, questa volta, i sogni se li è portati via tutti. Ma non è riuscita a portarsi via la Coppa. Che è ancora li, a ricordare che quella palla, il niño l’ha buttata dentro per davvero. E la Spagna è ancora Campione d’Europa.

Enricuzzu

(nella foto in alto) L'esultanza di Fernando Torres al gol dell'1-0
(nella foto in basso) La Spagna alza la Coppa

venerdì 27 giugno 2008

Kebap e vodka? Sconfitti, scontenti ed... ammirati.

Semifinali
Germania - Turchia 3-2
Spagna - Russia 3-0


La sconfitta ha un sapore amaro. Un sapore che ti
lascia in bocca quella sensazione bruttissima, quel gusto orrendo che non avresti mai voluto assaggiare. E’ il paradosso di questo Europeo 2008: quando stai per toccare il cielo con un dito, scivoli e cadi. E cadere dal cielo, fa davvero tanto male. E’ capitato all’Olanda, che stava dipingendo d’arancione quello sguarcio sopra le nuvole, è capitato al Portogallo che quell’angolo di cielo lo ha visto vicino come non mai. E’ capitato anche a noi italiani, anche se il cielo lo abbiamo visto da lontano, e forse cadendo, ci siam fatti meno male. Infine, il cielo con un dito, ma stavolta davvero, lo hanno toccato turchi e russi. Coloro che abitano a metà fra Europa e Asia. Coloro che all’Europeo, in mezzo ai grandi, ci sono entrati in punta di piedi. E hanno preso a ceffoni a tutti.
Da un lato la Turchia, quella squadra che ha dato un nuovo significato alla parola ‘cuore’. Quella squadra che il suo cielo lo ha sempre toccato all’ultimo secondo, quando gli altri ormai non ci credevano più. Ne ha approfittato per l’ultimo guizzo, verso lassù. Quella squadra che d’improvviso si è trovata sola, con gli uomini contati e non ha fiatato. Senza attaccanti ma con la tranquillità di affermare “…nessun problema, schiereremo il terzo portiere in avanti”. Roba da far ridicolizzare noi italiani che abbiamo pianto il Cannavaro infortunato. Repubblica Ceca, Croazia, a momenti anche la Germania. Tutte così, all’ultimo soffio sull’erba. Ma il destino crudele ai turchi aveva scritto, che chi di 90’ ferisce, di 90’ perisce.
Dall’altro lato la Russia. La squadra degli innominabili, degli sconosciuti. Quelli che sono entrati in Svizzera e Austria con la devastante potenza di una transiberiana, abbattendo tutto ciò che gli si frapponesse davanti. Quelli che il nome del loro centravanti, Pavlyuchenko, ce l’hanno insegnato a forza di gol. Quelli che solo la Spagna, nel silenzio di chi sa di custodire un segreto inenarrabile, è stata in grado di fermare. Per due volte, tante sufficienti a non parlare di fato.
Non resta che l’onore delle armi, e la giustizia morale di non far uscire due squadre cosi, a testa bassa, nel silenzio di chi lascia la scena ai vincenti. Non resta altro che deglutire l’amaro, e lasciar spazio al dolce di chi c’ha provato più degli altri. Di chi non si è arreso. Non resta che tuffarci nella cucina tipica, nelle tradizioni, nel folklore. Un kebap da un lato, ed una vodka dall’altro lato. Con la consapevolezza che almeno in queste occasioni, il palato non perde mai.

Enricuzzu

(nella foto in alto) Il fantasista Andrei Arshavin, stella russa
(nella foto in basso) La delusione del turco Hakan Balta