sabato 25 ottobre 2008

Con la valigia in mano, da Manhattan... in Korea!

Flushing, Queens (NY),
October 24th

E’ un tranquillo Giovedì di fine Ottobre quando, in una New York intenta a prestare un occhio a Obama ed un orecchio a McCain, si sparge la notizia così sottovoce che quasi nessuno se ne accorge. Ad un mese e mezzo di distanza dal suo primo piede in territorio a stelle e strisce, Enricuzzu trasloca.
Come un perfetto newyorker annoiato, figlio della City, ho deciso che era l’ora di lasciare il delizioso East Village di Manhattan. Anche perché l’altrettanto delizioso appartamentino del mio Boss era diventato troppo stretto da quando, vastasamente, mi sono infilato a scrocco approfittando della sua generosità. E cosi, in direzione Flushing, nel Queens, dove mi aspetta il YMCA Residence, ci ritroviamo in due, su quella subway. Io e quell’infame traditrice della mia valigia. Una figura ormai dotata di vita propria, capace di ingrassare inspiegabilmente a vista d’occhio. Lei – la pacchionazza – che ha messo da sola in crisi un Boeing della British Airways, costretto a volare sopra l’oceano piegato di lato per controbilanciare il suo peso. Lei, a cui ogni volta devo inventare entrate secondarie in subway, dato che la sua silhoutte non le permette di entrare come tutti i cristiani dalle entrate convenzionali.

Dopo uno smisurato numero di fermate, la linea 7 della subway arriva finalmente al capolinea. Quando esco a riveder le stelle, mi fermo impietrito. La “pacchionazza” mi guarda dubbiosa come a volermi chiedere dove siamo finiti. E in effetti, tutti i torti non ha. Se prendete un turista infatti, gli vendete un volo per la Grande Mela e lo portate bendato da queste parti, state certi che rivorrà i soldi indietro, accusandovi di aver detto New York, non Seoul in Korea. Ed invece, ironia della sorte, Flushing, frazione del Queens è ancora New York a tutti gli effetti.
Le centinaia di insegne luminose, in rigorosi ideogrammi koreani, ti stordiscono. Le numerose agenzie di viaggio presenti in zona promuovono low-cost convenientissimi: “da New York a Seoul in un batter d’occhio”. Probabilmente nel senso che per quanto batti gli occhi, in Korea qua ti ci senti per davvero. E neanche devi pagare.
A differenza di Chinatown a Manhattan, dove sembra di trovare americani che giocano a fare i cinesi però, la Korea Town del Queens sembra molto più reale. Qua nessuno fa finta, sono davvero koreani capitati per sbaglio negli USA. Qua qualcosa in koreano la devi imparare per forza se non vuoi essere fregato. Come stava capitando a me all’entrata nel primo fast-food. Dalle insegne - ovviamente - non ci avevo capito una fava, ma mi son fatto guidare da un innato istinto che ha identificato nell’immagine di panino e bibita sulla finestra, un posto dove poter mangiare qualcosa. Non appena varco la porta mi accolgono con una parola che ho capito in seguito significare “ciao” in koreano (che si scrive: 안 녕). Partiamo male. Mi guardano e capiscono dai tratti somatici che, probabilmente, non sono asiatico. Non c’è che dire, delle volpi. A quel punto cominciano a parlare in spagnolo, seconda lingua ufficiale nel Flushing vista la massiccia presenza di ispanici. Io però – pur sapendo parlare un buon spagnolo – mi impunto sulle mie. Siamo a New York? Parliamo inglese. Chiedo cosa c’è di buono nel Menù in lingua anglosassone e mi sento rispondere in prima battuta con un paio di risate, dal proprietario e dai commessi e subito dopo con un “Parli americano? Sei di Manhattan, vero?”. Anche cabarettisti questi koreani. No, sono siciliano – mi vien da rispondere – e se ti do due timpulate internazionali dici che le capiscono anche a Seoul?
Ho realizzato col tempo, dopo averci sbattuto la testa, che qui l’inglese è davvero considerato la terza lingua. Una lingua che – se proprio ci tieni – la gente si adatta a parlare per venirti incontro. Anche se di fatto ti trovi sempre a New York.
All’uscita da quel tutto sommato simpatico bar, mi immergo nelle strade del Flushing dove becco il mio coinquilino turco col quale dividerò la stanza. Con la “pacchionazza” ancora in mano il mio unico pensiero diventa quello di buttarmi al più presto nel letto. “Come troviamo il Residence?” chiedo ad Erkan, che già abita la da un mese. “Tranquillo” – mi risponde – “…è l’unico edificio con l’insegna in Inglese!” scoppiando a ridere. Rido anche io mentre ci immergiamo nelle strade del Flushing. Fra gli ideogrammi luminosi penso a dove mi porterà il futuro lavorativo un domani. L’Asia non è una prospettiva così remota. A quel punto però, gli ideogrammi, o li si impara o li si impara!

C’erano una volta un italiano ed un turco in una New York koreana... sembra una barzelletta. Provate a raccontarla in giro.

Enricuzzu

(nella foto) Il mio panificio di fiducia. PS. Mamma tranquilla, sono davvero a New York, non a Seoul.

giovedì 16 ottobre 2008

Calciatori e Showgirls

E' bastato qualche gol (anche se di culo...) per mandare in delirio le fans americane che - abituate ad armadi gonfiati di football - di calciatori ne vogliono sempre di più...


martedì 14 ottobre 2008

It's just Soccer!

Brooklyn (NY),
October 14th

Ci sono due cose alle quali, in qualunque parte del mondo si trovi, Enricuzzu non sa proprio rinunciare: le donne ed il calcio. E se con le prime qui a Brooklyn devi stare attento a non sbagliare se non vuoi ritrovarti il fondoschiena al posto della faccia e viceversa, per il secondo la strada è più facile. Basta ritrovarsi tutti un Lunedi sera dalle parti di McCarren Park ed il gioco è fatto.
Il nostro gruppo pallonaro è composto da persone molto tranquille, non c’è che dire. Il più delicato è il mio coinquilino, Erkan, turco ultrà sfegatato del Fenerbache. Ho detto tutto. Quando lo conobbi gli ricordai subito che due anni fa ci demolirono 3-0 in Coppa UEFA a Istanbul. Rise. L’infame era allo stadio quella sera.
Durante il riscaldamento pre-match, per fargliela pagare un pò, gli faccio un tunnel e la buttiamo sul ridere. Ma si avvicina Kevin, un ragazzo americano e sorridendo mi spiega l’unica regola che hanno da queste parti. Il tunnel è un po’ come un offesa. Te ne sono concessi due a partita. Il terzo, se vuoi, lo puoi fare all’infermiera del Brooklyn Hospital. Insomma, detta mezza parola, chi vuol capire capisca. Mi schiaccia l’occhio. Che personcina a modo.

Inizia la partita. Siamo negli USA, il campo è quello da football americano, ci sono le aste del touchdown ma mancano le porte, quindi si rimedia con gli zaini, stile oratorio vecchi tempi. La mia squadra sembra un frappè di mappamondo. Io sono l’unico italiano in campo. Schieriamo, oltre me, un turco (Erkan), uno spagnolo, due brasiliani, un asiatico naturalizzato statunitense (non ci facciamo mancare niente), un portoricano, tre americani ed un giapponese dalla faccia fessa. Ovviamente chi era il fenomeno della squadra? Il giapponese dalla faccia fessa. L’unico a cui erano permessi i tunnel e all’inizio non capivo perché. Poi ho realizzato. Lui, che di nome fa Kazui, muove talmente veloce il pallone che è capace di fartelo passare fra le gambe tre, quattro volte nel giro di cinque secondi senza farti capire nulla. Il massimo lo ha raggiunto quando su una spazzata di Erkan (ho insegnato a tutti, da Tokyo a New York, la dicitura “arrocca sta palla”) ha stoppato la palla, in scivolata, di tacco! Roba che sono rimasto fermo un minuto ad interrogarmi cosa diavolo giocavo a fare io. Ora capisco perché Holly e Benji sono giapponesi!
Sulla prima azione Kazui si inventa due finte delle sue e mi lancia la palla rasoterra d’esterno mettendomi solo davanti al portiere. Io alzo la testa e vedo accorrere Erkan come un espresso direttamente da Istanbul. Sarebbe un peccato sprecare quella corsa forsennata. Aspetto l’uscita del portiere e tocco la palla nel mezzo. Arkan entra in rete (si fa per dire!) con tutta la palla. Ci scambiamo il “cinque”. “Allora non ce l’hai con me per quella partita col Fenerbache…” mi chiede sorridendo. “Ma figurati, acqua passata…” gli rispondo di rimando. (Staminchia – detto fra di noi – la prima volta che giochiamo contro lo sommergo di dribbling!).
Dopo un pò, in seguito ad un contrasto molto dubbio, Julian lo spagnolo, vola a terra. Fischi e pernacchie di tutti. “Sei un italiano!” vola dal fondo. Rimango perplesso. Vorrei rispondere ma la cosa triste è che non so come. Hanno ragione, ed all’estero paghiamo in sfottò la nostra fama di tuffatori.
Sull’azione seguente però, nel mio piccolo, ce la metto tutta per far alzare la reputazione estera alla nostra Nazione pallonara. Entro in area e Mike, americano quattro stagioni di 2 metri di altezza per 100 chili di muscoli mi asfalta per terra. Mi guarda e mi chiede “Is it penalty?”. Mi alzo, gli do una pacca sulla spalla e gli rispondo “No man, it’s just Soccer!” e corricchio verso il centrocampo. Gli altri mi guardano sorridendo. Forse hanno capito che gli italiani non sono tutti uguali. Mike mi raggiunge, mi da il “cinque” d’ordinanza e però esagera. Guarda la mia maglietta del Palermo e gli scappa un sorrisino alla vista del rosa. Gravissimo errore.
Sull’azione seguente Kazui sbaglia un passaggio elementare. In buona sostanza spazza una palla in area con una semirovesciata volante che, abituato a vedergli fare numeri pazzeschi, mi aspettavo mi mettesse sui piedi. Invece, scarsone (!), la mette troppo lunga. Mike la stoppa. Io parto coltello fra i denti, sangue agli occhi, arterie pulsanti e muscoli tesi verso di lui e gli entro in scivolata. Palla pienissima, intervento pulito. Mike la montagna vola a terra rotolando due metri più avanti. Mi fermo, lo guardo, gli sorrido e gli dico “Do not joke with my shirt, man!”. Lui mi guarda da terra per qualche secondo e poi ride. Ha capito. Io rispetto le loro regole, loro devono rispettare il mio rosanero.
A metà partita la stanchezza si fa sentire. Chiedo quanto stiamo ma Pablo, uno dei brasiliani che evidentemente ha capito tutto del calcio, mi risponde che qua nessuno guarda il punteggio. Si gioca solo per divertirsi. Ed io gioco da classico centromediano mezzapunta metodista d’attacco laterale con licenza di offendere… a parolacce. Insomma, dove gioco non lo capisco neanche io. Ma da italiano doc di tattica ne capisco più di tutti che pendono dalle mie labbra quando spiego i concetti basilari di “diagonale” e “marcatura a uomo”. Mi passo la mano fra i capelli. Mi mancherebbe solo la “pelata” e mi sentirei Ballardini.

Le luci artificiali dopo due ore di partita cominciano a spegnersi lentamente. E’ ora di andare a riposarsi e bere giusto quei tre, quattro litri d’acqua che ti mancano in corpo. Enricuzzu dal campo di Brooklyn ne esce con tante amicizie e con due gol da incorniciare. Entrambi di testa, che sembra una barzelletta se si considera che, in offesa ai miei 180cm, con la capoccia usualmente non ne becco una manco a pagarmi. Uno su stacco imperioso e un altro addirittura su un tuffo a volo d’angelo che posso raccontare a nonna quando torno a casa in Italia. Tutte le medaglie però hanno due facce. E grazie a queste prodezze, accoppiate al mio passaporto italiano, ora tutta Brooklyn mi chiama Luca Toni. Che ad un palermitano, si sa, è un po’ come dire stronzo. C’est la vie. Anzi, come dicono da queste parti “It’s just Soccer!”.

Enricuzzu

(nella foto) Enricuzzu prima del match, una fede, una passione. Ovunque nel Mondo!

domenica 12 ottobre 2008

San Diego: sole, surf e... salentini fancazzisti!

San Diego (CA),
October 12th

E' la grande sfida americana. Per chi non sapesse, West Coast ed East Cost, per il popolo a stelle e strisce, suona un pò come Settentrione e Meridione per il nostro Bel Paese. Stili di vita diversi, modi di approcciarsi alla realtà quotidiana opposti. E se a New York la gente sfreccia a cento all'ora in mezzo ai taxi, in California la gente si prende il suo tempo. Si alza con calma e con calma si tuffa in acqua... Non è dato sapere quale dei due stili di vita sia migliore, ma una chiaccherata con Paolasso - ormai mio fratello acquisito - non ce la toglie nessuno. In collegamento diretto Times Square e Pacific Beach si uniscono, giusto per regalarvi due risate...

Enricuzzu: "Paolasso, ti ho disturbato?"
Paolasso: "Disturbato no, ma mi fa strano scrivere una mail dal momento che qui sono tutti un po' disconessi dal mondo... mi sono dovuto abituare (con dispiacere!) al 'Take it Easy'!"

E: "A surf come siamo messi?"
P: "...beh, diciamo che la prima lezione a Pacific Beach con gli occhi puntati addosso di decine di surfisti professionisti non è proprio stato il massimo... soprattutto quando l'istruttore, pagato profumatamente, commenta il tuo primo approccio alla tavola dicendo che anche una tartaruga farebbe meglio!"

E: "Cosa ci fa un salentino in California?"
P: "Esattamente quello che ci fa un palermitano a New York con l'unica differenza che il salentino è abbronzato e fancazzista mentre il palermitano lavora assai! Such is life!"

E: "San Diego vs New York... chi vince?"
P: "Non ti rispondo neppure... mi limito solo ad un dato... 360 giorni all'anno di super sole... e gli altri 5? Semplice sole!"

E: "Le mille luci di Times Square però li non ci sono..."
P: "...si, ma ci sono le mille luci dei falò la sera ad illuminare la baia!"

E: "Io voglio andare a vivere in California e sono a New York. Tu vuoi andare a vivere a New York e sei in California. Ci prendiamo in giro?"
P: "Diciamo che potrei rivedere la mia posizione a riguardo... quasi quasi..."

E: "Raccontaci qualcosa di californiano..."
P: "Ho conosciuto il classico siciliano emigrato all'estero 36 anni fa! Un certo Salvatore Vanella che dopo essersi presentato dicendo di essere originario di Aspra ha voluro chiarire che è scappato dal suo paese in quanto il più pericoloso personaggio della zona ("Eru u primu camurrista!")! Da classico italiano mi sono permesso di chiedere se conosceva un certo Genuario, anch'esso di Aspra e non potevo ricevere rispota più eloquente: "U Genuariu... minchia, ci diedi u primu pugnu !!!". Insomma siamo diventati amici... ma soprattutto ora ho le spalle coperte!"

E: "Un siciliano a New York per promuvere gelati e sorbetti... ci potresti credere?"
P: "Ma non lavoravi in un panificio ?!?"

E: "E se il carretto dei gelati si spostasse dalle tue parti?"
P: "Beh, considerando il peso forma degli abitanti di San Diego mi sa che il business girerebbe bene... qui i gelati se li mangiano 6 alla volta!"

E: "Cosa ti manca dell'Italia? (tieniti quella lacrimuccia che non ci crede nessuno...)"
P: "Il McCicken Menu del McDonald di Piazza Duomo! Amoreeeeee scherzo... manchi solo tu qui !!!" (...a scanso di imbarazzanti equivoci, il riferimento è a Roberta, storica zita! ndr.)

E: "Salutaci come ci saluterebbe un californiano..."
P: "Con il DAP, ossia braccio alzato a dare il 5 facendo attenzione a nn farlo con il palestrato di turno, altrimenti il rischio borsite è assicurato! In più è assolutamente d'obbligo il vero saluto californiano ossia 'Have a Blast' che nello slang locale vuol dire 'divertiti il più possibile', ossia... devastati pure tanto lo fanno tutti! Io invece cerco di diffondere il più salentino dei saluti... STATTE BBONU!"

Da San Diego è tutto, cari amici... per quanto riguarda me, corro a prenotare il biglietto: la California mi aspetta!

(nella foto) Paolasso gioca a fare Mitch Buchannon su una torretta "Baywatch Style"

lunedì 6 ottobre 2008

Coney Island. Profumo d'Oceano.

Coney Island, Brooklyn (NY),
October 5th

Immaginate un porticciolo di mattina. Il lungo molo che si incunea fin dentro le profondità del mare. Il sole, limpidissimo, sembra colorare d’oro le travi di legno. La spuma delle onde accarezza la sabbia timida, ritirandosi subito indietro. Più in la, qualche pescatore, in silenzio, tenta di carpire i segreti dell’Oceano. Coney Island, punta estrema di Brooklyn, si presenta così, come sembrasse un quadro dipinto ad olio su una tela immaginaria.
C’erano pochissime persone Domenica mattina sulla Surf Avenue (un nome, un programma). Come se i newyorkesi volessero custodire il loro piccolo segreto. Il segreto di chi sa, probabilmente, di avere la città al centro del mondo. Capace di contrapporre, senza logica alcuna, ai grattacieli della Fifth Avenue l’immenso Central Park e alle mille luci di Times Square chilometri di spiaggia selvaggia, persa nel sussurro dell’Oceano Atlantico.

Coney Island è leggenda. Nel 1916, da queste parti, nacque l’Hot Dog. Il celebre panino, figlio di Nathan’s, padre anche del World Contest che si svolge ogni anno. Da tutto il paese arrivano qui giovani eroi armati di stomaci d’acciaio pronti a sfidarsi all’ultimo Hot Dog. L’anno scorso, insieme a Coney Island, divenne leggenda anche Joey Chestnut, un alieno dalle sembianze umane, capace di farne sparire a suon di morsi ben 66 (SESSANTASEI!) in meno di un quarto d’ora. Joey si è riconfermato campione quest’anno, mangiando per ben 7 panini in meno. Evidentemente perché ancora non aveva digerito quelli dell’anno prima.
Le poche nuvole nel cielo sembrano disegnare forme astratte quando io fisso, disdetto, un cartello che sembra ammonirmi. Bandiera rossa. Non ci si può fare il bagno. E a me non resta che sedermi su una panchina del molo perso nei miei pensieri. Che profumo ha l’Oceano? Secondo me forte. Come un sapore selvaggio, nascosto ma allo stesso tempo pronto ad infrangerti con la sua potenza.
Una ragazza di queste parti mi dice con un sorriso ed un briciolo di orgoglio che se Parigi è la Francia, allora Coney Island, fra Giugno e Settembre è il mondo. Ok, facciamo tanto orgoglio. Quelle parole le ho ritrovate qualche minuto dopo su un murale davanti la spiaggia. George Tilyou, l’autore, è riuscito a tramandare negli anni, attraverso un graffito, i sui sentimenti. E’ li che ho capito l’importanza delle parole. Che non devono mai essere risparmiate. Perché ciò che non vogliamo dire oggi, domani avremo il rimorso di non poterlo più fare. Non conservate le parole dentro di voi, amici miei. Lasciatele libere di librarsi per aria come i pellicani che al tramonto cercano di afferrare quel rosso che sa d’infinito. Oggi vorrei dire tante cose, rivelare inconfessabili segreti ma non posso più perché ieri, quando potevo, ho avuto paura. E a nulla serve oggi perdersi nella lacrima di un ricordo se non a darsi forza per il domani. Domani che, a Coney Island, sarà un’altra magia.

Quando salgo sulla metropolitana per tornare verso casa, i sottili raggi del sole che filtrano dai vetri mi socchiudono gli occhi facendomi scivolare nel sonno. Dopo una quarantina di minuti le voci squillanti di Times Square mi riportano alla realtà. Sono un po’ triste. Mi alzo ed una manciata di sabbia mi cade dalle tasche. Sorrido. No, Coney Island non è stata solo un sogno.

Enricuzzu


(nella foto in alto) Il Murale di George Tilyou
(nella foto in basso) Enricuzzu pensa di infrangere le leggi statunitensi...

venerdì 3 ottobre 2008

Harlem. Il quartiere nero.

Harlem (NY),
October 3rd

Harlem non ha un segnale d’entrata. Non ha un cartello con scritto “Benvenuti a…”. Ad Harlem - il quartiere nero di New York - ci si entra e basta, varcando una linea immaginaria a nord di Manhattan. Te ne accorgi quando alzi la testa e capisci di essere l’unico uomo bianco nell’arco di chilometri.
Avevo pensato di prendere una stanza in affitto da queste parti. In fondo - mi dicevo - io con i coloured (e chiunque diverso da me) mi ci trovo benissimo e gli affitti sono anche più economici. “Non è questione di bianchi o neri...” - mi ha avvertito un mio amico afroamericano che vive nella City da diversi anni - “…è questione di persone. E ad Harlem non ci sono belle persone.”. Un monito che sa tanto di uomo avvisato mezzo salvato, che mi ha convinto a buttare l'occhio altrove.

Harlem però è diversa da com’era un tempo. Vent’anni fa, per intenderci, ai bianchi era davvero vietato l’acceso. O almeno, l’acceso era consentito… era l’uscita che era impossibile. Se non dentro una cassa in mogano.
Da Harlem proviene e prende il nome quel gruppo di ragazzi che qualche decennio fa si ribellò alle leggi della NBA che consentivano l’acceso al pallone da basket solo ai bianchi. Nacquero così i Gobetrotters, in seguito ad un sacrosanto sentimento di rivalsa. E di sfida. “Il basket è nero” si diceva in tono provocatorio facendo piroettare la palla con traiettorie assurde. Qualche anno dopo, quella stupida legge dal sapore razzista si sgretolò come un cracker ma gli Harlem Globetrotters rimasero uniti, in solitario, continuando a girare il mondo con i loro spettacoli pirotecnici che auguro a chiunque di vedere dal vivo almeno una volta (come ho avuto la fortuna io a Milano).
Harlem è cambiata però, dicevo. Ora i bianchi possono entrare. C’è minore criminalità anche se non è del tutto scomparsa. E di questo “avvicinamento” al resto di New York si deve riconoscere il merito all’ex sindaco, italoamericano, Rudolph Giuliani. “Uno totalmente pazzo” mi spiega sorridendo il mio Boss. Pazzo perché aveva in testa solo il desiderio di migliorare la città, a qualunque costo. Pazzo perché più volte è stato minacciato dalla Mafia ma non ha mollato la presa. Pazzo perché ha visto i suoi possibili killer in faccia senza fare una piega perché il suo desiderio di cambiare era più forte di qualsiasi paura. E qualcosa, Rudolph Giuliani, l’ha cambiata davvero ad Harlem. In otto anni di carica è riuscito a diminuire sensibilmente il gap che separava il quartiere nero dal resto di Manhattan.
Un italiano con le palle” lo definisce, in un italiano stentato, Rihoni, il nostro autista dominicano. Tanto da far passare come “uno qualunque” l’attuale sindaco. Uno di cui non ci si ricorda neanche il nome.

Scendendo la Broadway e scalando le street dalle triple alle doppie cifre, quasi non ti accorgi di uscire dal quartiere. Varchi per la seconda volta quella linea immaginaria e ti immergi di nuovo nella frenesia di Manhattan. Mentre di Harlem si sfumano i contorni nello specchietto retrovisore.

Enricuzzu

(nella foto in alto) Murale della Graffiti Hall of Fame ad Harlem
(nella foto in basso) Murale esposto nella stazione di Polizia ad East Harlem.

mercoledì 1 ottobre 2008

NBA. Where Amazing Happens.

Manhattan (NY),
October 1st

Quando varchi quelle porte scorrevoli sulla 5th Avenue, capisci perché gli americani li definiscono “I supereroi con pantaloncini e canotte”.
Sulla famosissima strada newyorkese, all’angolo con la 52nd Street c’è il paese dei balocchi per gli amanti del Basket a stelle e strisce. L’NBA Store, un qualcosa di così vario che non ti basta un giorno a visitarlo tutto, ti entra dentro come pochi negozi al mondo. Neanche fai in tempo ad entrare che ti si piazza davanti una statua di Yao Ming, stella cinese degli Houston Rockets, interamente fatta coi lego. “Grandezza naturale” mi dice la commessa con un sorrisino, che tradotto significa 2.29 metri di cristiano. Roba da tirare lo sciacquone sopra il luogo comune che i cinesi sono tutti tappi.
Supereroi con pantaloncini e canotta. Capisci cosa vuole dire la gente proprio se fai il paragone con le tue stelle del calcio. Gente dotata di tecnica sopraffina ma che sembra uguale a te. Prendi un Fabrizio Miccoli, uno che col piede potrebbe anche dipingere un quadro. Uno che lo incontri per strada e lo vedi quasi come un ragazzetto uscito dal Liceo. Le stelle delle pallacanestro invece hanno dimensioni spaventose. Portano misure di maglie fatte apposta per loro ridicolizzando la tua squallidissima “M”. Oltre ad una quantità spropositata di muscoli, sfoderano dimensioni corporee esagerate. Che ti chiedi chissà, forse gli alieni ci hanno già invaso.
Era questo il dubbio che mi attanagliava mentre fissavo quel canestro posto al centro del negozio. Altezza regolamentare of course. Che per toccare anche solo il retino mi serviva un treppiedi. Io, miseramente “basso” 1.80m (esattamente quanto Chris Paul, splendido playmaker dei New Orleans Hornets, da me considerato “tappo” in TV paragonato ai suoi compagni di squadra). E se di miseria si parlava prima, non resta che farsi due risate se la mano di Enricuzzu (1.80m per 70kg) si paragona al calco della mano di Shaquille O’Neal (2.16m per 148kg) stella dei Phoenix Suns. Vedere la foto sopra per credere. Immagino solo le presentazioni. “Piacere, Enricuzzu” – “Piacere, Shaq”. Strette di mano. Crak! Dov’è l’ospedale più vicino?

PS. Il video sotto ritrae in una campagna promozionale la stella dei "miei" Los Angeles Lakers, Kobe Bryant (MVP 2008). Uno al cui la natura ha donato 198cm di altezza, e una volontà che gli permette un'elevazione terrificante per compiere pazzie del genere... anche solo per "finta" !



Enricuzzu