martedì 27 ottobre 2009

La Torre dritta nel Mondo storto

Pisa (Italy),
October 27th

Mentre fai due passi per la città, la trovi stampata ovunque: sulle cartoline, sulle magliette, sulle bottiglie di liquore, a volte anche negli occhi della gente. Sembra quasi un avvertimento: state attenti, perchè la "torre pendente" potrà spuntare da un momento all'altro, quando meno ve l'aspettate. Ed infatti così è. Come a Parigi l'Eiffel spunta a sorpresa dietro una rue cittadina e a Londra il Big Ben sbuca da dentro una nuvola, così nel silenzio di Pisa spunta lei. All'improvviso.

Madama presunzione raconta che tentarono di raddrizzarla. Qualcosa d così storto - prima o poi, si pensava - finirà col cadere. Poi ne rinforzarono le fondamenta per paura, dando del pazzo a chi sosteneva che la "torre pendente" fosse in realtà l'ultima cosa dritta rimasta al Mondo per ricordare all'uomo - il vero storto - come a forza di giocare ad uccidersi pian piano, potesse rischiare un giorno di cadere (lui si) definitivamente, senza poter più rialzarsi.
Io ho voluto dare a quel pazzo il beneficio del dubbio, poco prima di andarmene da Pisa. Mi sono fermato, ho poggiato le mie robe a terra e ho guardato la Torre piegato. Storto. E - credetemi - per un attimo mi sono sentito dritto anche io.

Enricuzzu

(nella foto) La "torre pendente" immortalata da Juan su Flickr

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venerdì 25 settembre 2009

Wakeboard in strada: quando lo sport s'inventa!

Mondello (PA),
September 20th

Si deve fare attenzione a Palermo quando si racconta che in ogni genio c’è un pizzico di follia perché, in una città che non conosce mezze misure, di follia ce n’è fin troppa e si rischia di alzarsi una mattina di fine estate in preda a scatti convulsi di creatività. Proprio com’è successo a Dario Romeo, mondelliano di nascita e avventuriero per scelta, qualche giorno fa. “Sapevo che c’era stato un acquazzone, ma quando ho trovato il cane che nuotava in giardino, proprio non ce l’ho fatta più…” ci racconta. 29 anni in giro per il mondo con una passione: il wakeboard, che insegna tramite la sua scuola (la Sikelia) proprio a Mondello. 29 anni sempre con la stessa domanda: ma perché per due gocce d’acqua Palermo si deve ridurre sempre così? Strade impantanate, fiumi in piena lungo strade pedonali ed un confine col mare che dicono esistere ma che proprio non si trova. Come le sue risposte. E allora non resta che farsi travolgere dalla genialità che offre il wakeboard. “Ho chiamato un paio di amici e mi son portato dietro la tavola” continua a raccontarci. Se cercate su youtube lo troverete anche voi: mentre cavalca onde selvagge lungo tutta Via Principe di Scalea, quando intorno le auto annaspano. In poche ore oltre diecimila visualizzazioni, praticamente come essere andati su una tavola da un lato all’altro di Palermo. E forse anche della Sicilia.

L’acqua, un problema che da anni a Palermo è fratello del traffico, oggi sfrutta la sua “onda” e ruba la scena a tutti. Da quella sporca che scorre sotto le barchette di qualcuno a quella melmosa che scorre sotto la tavola di Dario e dei suoi amici. C’è chi gli da dei pazzi – “ma in fondo forse avrebbero voluto provare anche loro” – risponde Dario. Ed ha ragione, perché nessuno dovrebbe stancarsi di fare notare cosa non va in questa città e spesso proprio nel modo migliore che esiste: la goliardia che da anni accompagna un popolo sempre abituato a scherzare sulle proprie disgrazie.

Fra qualche settimana ci sarà il Windsurf World Festival e resteranno tutti al loro posto: Mondello, il mare, i problemi della città e lo stand della Sikelia Wakeboard di Dario. Fate un fischio se volete una lezione con la tavola. E poco importa se ci sarà malotempo e strade allagate: tanto ora sappiamo come muoverci!

Articolo pubblicato all'indirizzo web livesicilia.it - Clicca Qui per leggere

Enricuzzu



(nella foto sopra) Dario Romeo
(nella foto sotto) Dario mentre fa wakeboard per le vie di Mondello

venerdì 11 settembre 2009

Surfando verso Sud ...

Mondello (PA),
September 7th

L’acqua che mi scivola fra i capelli. La pelle che sfiora l’aria frizzante. Il profumo della salsedine nelle narici. Le ginocchia piegate in avanti nel disperato tentativo di mantenere l’equilibrio. I raggi del sole che incrociano i miei occhi dipingendomi la spiaggia dove sono nato come una meraviglia nuova mai vista. Il tutto dalla durata di un secondo lunghissimo, interminabile, prima che il mare mi dica che il momento paradisiaco è durato fin troppo per essere la prima volta. Bum, finisco rovinosamente in acqua. Quando riemergo capisco perché dicono che il Surf sia divino: perché ti permette di camminare sulle acque come si racconta fece un tizio un po’ più famoso di te, senza tavola sotto i piedi ma col cuore strapieno di amore.

Sono le nove del mattino quando mi reco al negozio di Surf per noleggiare la mia prima tavola con Andrea, mio fratellino acquisito da più di dieci anni e parte ormai integrane della mia ‘ohana (la famiglia “allargata” per gli hawaiani, che comprende anche gli amici stretti). Ho fermamente in mente che tipo di tavola voglio per cominciare: praticamente un portone di casa che farebbe galleggiare in acqua anche un pachiderma. O in alternativa una minimalibù, tavola abbastanza grande e abbordabile per i principianti. Potete quindi immaginare il mio sguardo da cefalo arrosto quando il ragazzo del negozio mi mette davanti una shortboard, una tavoletta aerodinamica e paurosamente piccola da sembrare quasi una figurina di plastica con le pinne sotto. “Con questa, se prendi l’onda, voli…” mi dice schiacciandomi l’occhio, pieno di soddisfazione. Mi renderò conto qualche ora dopo, in acqua, che in effetti aveva ragione: con quella tavola si vola davvero. Faccia all’aria da una boa all’altra, però.

Poco dopo, in spiaggia, ancora prima che dalle onde, vengo travolto dall’entusiasmo. Qualche lezioncina rapida sulla sabbia e mi tuffo subito in acqua. Quasi dimentico di allacciarmi il leash (il laccio che lega la tavola alla caviglia) rischiando di andare a recuperare la stessa a Capo Gallo al primo cappottone. La prima cosa da imparare però, ancora prima di cavalcare le onde, è come “superarle” se vuoi arrivare al largo. Esistono due modi e io li provo entrambi. Il primo si chiama turtle. Praticamente quando arriva l’onda, ti rigiri a 360° con la tua tavola sott’acqua e poi riemergi dopo che l’onda sia passata, proprio come una tartaruga. Ci provo alla prima onda… La vedo arrivare e mi capovolgo sott’acqua. Subito risalgo in posizione corretta. L’unico problema è che quel “subito” è quantificabile in circa venticinque minuti buoni in cui studio attentamente il fondale sabbioso e l’effetto dell’acqua salata in fondo alla trachea, fra le risate di tutti. Provo allora il secondo metodo, il duffy dive, che consiste nel portare la punta della tavola e la testa sott’acqua quando l’onda arriva, come fa l’anatra e riemergere subito dopo. Con palese maggior successo, comincio a superare onda su onda, quasi arrivando – panza sopra la tavola – a Ustica.

Le onde a Mondello non sono eccessivamente alte anche se il mare pare parecchio “incazzato”. Più che altro sembra giochi a mettermi paura, riuscendoci tral’altro. Cionostante io mi lancio su ogni onda, ondona o ondetta. Spesso anche solo sulla spuma bianca, causa imbarazzante inesperienza. La metà delle volte finisco faccia sott’acqua quando mi lancio in bravate dal coefficiente di difficoltà elevato per le mie capacità. L’altra metà delle volte, riesco a cavalcare le onde bene, seppur in ginocchio, e provo quell’emozione indescrivibile e divina citata sopra, di sfrecciare sull’acqua che sembra sorriderti intorno.
Qualche battuta con Andrea interrompe per un po’ la stanchezza dei muscoli e qualche parola con gli altri surfisti in acqua strappa qualche risata. “Non ci sono molte onde oggi…” mi dice un ragazzo mentre si avvicina dalle mie parti. “Lo so, mi spiace, me le son bevute tutte io!” gli rispondo ironico. Poi la vedo arrivare… Quell’onda improvvisa che mi solleva da dietro come mi avevano sempre raccontato. La schiuma intorno si gonfia sempre più e io non cado. La velocità aumenta e io continuo a non cadere. Allora – forse – posso farcela. Mi lancio in equilibrio, piede destro avanti, piede sinistro indietro, ginocchia piegate, culo bassissimo. Riesco a vedere tutta la spiaggia di Mondello nei sui chilometri e me ne sento allo stesso momento il padre ed il figlio. A me è passata tutta la vita davanti anche se chi mi ha visto giura di avermi visto solo un secondo in equilibrio, prima di “ammarare”. Forse due, di sicuro non tre. Non importa. Mi importano solo quelle mille emozioni che mi fanno capire perché gli hawaiani lo chiamavano he’e nalu, ovvero “nascere dall’onda”. Come fosse una nuova vita, un nuovo inizio, ti sembra di uscire dall’acqua, da dentro un’onda, alla scoperta del mondo. Un’esperienza pazzesca, che ti si stampa negli occhi e nell’anima.

Prima di quella mattina non riuscivo a capire la follia di Bethany Hamilton, ragazzina statunitense al quale uno Squalo Tigre strappò via un braccio a soli 13 anni mentre surfava alle Hawaii, che si rimise sulla tavola, in acqua, poco più di un anno dopo. Oggi finalmente ho capito. Ho capito che per chi ama davvero il mare, quando si trova su quella tavola che vola a pelo d’onda, quello stesso mare è come la propria casa. Un luogo la cui attrazione fatale abbatte ogni paura e supera ogni ostacolo. Anche l’impossibile. E ho capito che non m’importa cosa la vita mi riserverà per il futuro e quale posto la trottola del destino vorrà che raggiungo. Ovunque sua, ci arriverò surfando.

Enricuzzu

(nella foto sopra) Enricuzzu e Andrea a Mondello (PA)
(nella foto sotto) Bethany Hamilton surfa con un braccio solo

giovedì 3 settembre 2009

Ultima notte a Parigi

Paris (France),
August 1st

Te ne accorgi un paio di minuti dopo che sei atterrato che il sentimento è ricambiato: neanche tu a loro stai simpatico. In compenso però, a loro sta simpaticissimo il tuo portafoglio che dimagrisce a vista d’occhio anche solo per comprare il biglietto del pullman che dall’aeroporto ti porterà alla città. Il prezzo te lo dicono nella loro lingua, anche se sudi palesemente e fai intendere di non capire. Loro non sudano, ma tentano di farti capire che ora sei in zona loro, e la lingua loro devi parlare. Te lo dicono subito con gli occhi: sei a Parigi. Bienvenue.

E a te sale subito quel rigurgito di nazionalismo che per potenza è almeno pari al loro. Sali sul pullman giurando vendetta e lo fai a voce alta. In italiano, ovviamente … e chi capisce capisce. Ti basterà poco ormai per farti lanciare frecciatine involontarie come le occhiate lanciate alle francesine nella Metrò. Non ti piaceranno le baguettes, non ti piaceranno i cappellini col pisellino sopra, non ti piaceranno gli artisti per strada, non ti piacerà quel loro dannatissimo accento all’insù che alla tua ragazza – se sei accompagnato – farà girare la testa. E soprattutto non ti piacerà l’idea che, in fondo, la testa gira anche a te. Per salvarti proverai a buttare giù un bicchiere d’acqua ma è li che il francese – bello e stronzo – ti darà il colpo di grazia: otto euro e venti per una bottiglietta da neanche un litro di acqua trasparante. Roba che se lo sapevi prima ordinavi una brocca di buon vino d’annata e buonanotte ai suonatori. L’unico posto che ti fa venire un sorriso di apprezzamento ufficiale ma di vendetta patriottica ufficiosa è il Louvre. Orgoglio francese. Ma di chi è la Gioconda? Ah, ecco.

I grandi siamo noi. Anzi no, i grandi sono loro ti dicono indicandoti la segnaletica che porta alla Reggia di Versailles. Dicono che ci sia un bel giardinetto … e andiamo a vederlo allora, sto giardinetto. Panico. Una distesa d’erba spaventosamente lunga che coprirebbe – occhio e croce – circa sei codici di avviamento postali. Un frullato spettacolare di alberi, fontane, fiori, giardini e giardinetti dove Luigi XIV si appartava con tutte le sue donnine di corte. Se fosse esistita la RyanAir in era monarchica, stai sicuro che ti piazzava un volo low-cost dall’entrata all’uscita dei giardini per fregarci gli inglesi.

Ma è proprio quando ne hai quasi abbastanza che “lei” ti spunta a sorpresa, senza preavviso, da dietro un albero. E ti abbatte. La Tour Eiffel è così: una spettacolare poesia scritta nel cielo ed illuminata dalla luna. Tutta Parigi in quattro pezzi di acciaio incastonati ad arte come diamanti purissimi. La vedi li nella notte e con lo sguardo da ebete innamorato cominci a salire senza neanche rendertene conto. Da sopra il panorama è da tachicardia turistica: tutta la città in un palmo, visibile ad occhio nudo nella lunghezza di un respiro. Talmente immensa da farti apparire piccolissima anche la fantastica ruota panoramica che campeggia sugli Champs Elyseè. Promemoria: mai salire sulla Torre da single. Quella diabolica struttura altera le percezione e stordisce i sensi come una donna che ti guarda ammaliatrice mentre ti sfila il portafoglio. E saresti capace di innamorarti lassù, anche dell’ascensorista brutto e gobbo che lassù ti ha portato.

Ed è a quel punto, alla fine del viaggio, che realizzi tutto, ricordandoti della tomba di Oscar Wilde, che hai visto qualche giorno prima. Interamente ricoperta di rossetto femminile, stampato in un’infinità di baci sulla pietra. E’ vero – ironia a parte – nessuno ha mai capito nulla di questo posto. Parigi non è la città dell’amore. Parigi E’ l’amore.

Enricuzzu



(nella foto in alto) Splendida cartolina della Tour Eiffel
(nel video) Ultima notte a Parigi

martedì 1 settembre 2009

Miami: dove puoi essere chi vuoi ...

di Alessandro Lo Piano

Miami (Florida),
August 2009

"Yeah Yeah Yeah Yeah, Miami... Uh, uh, Southbeach, bringin the heat, uh..." direbbe il buontempone di Will Smith, cool quando era principe di Bel Air, indigesto da attore-feticcio di quel frocetto di Muccino (Eminem ai tempi di Detroit gli avrebbe detto "You are gay and your brother is a fucking fagget"). E si perchè i due Muccino appartengono a quella tipologia di frocetto che a Miami sarebbe ben bene in**** a sangue!
Machiavelli, maestro dell'apparenze, avrebbe scritto una Commedia sul paradosso del "muscolo tenerissimo che si taglia con un grissino (vedi anche verga da 18 inch)": trattasi di omaccioni barbuti e muscolosi che bevono Daikiri Frozen sulla 7st e seguono la "detox diet". Spero che nessuno mi faccia causa, adesso!

"Everytime the ladies pass, they be like (Hi Uncle ALP !!!). Can y'all feel me, all ages and races. Real sweet faces (sweet=porca, accezione Miamina, ndr.) Every different nation, Spanish, Haitian, Indian, JamaicanBlack, White, Cuban, and Asian!"
Le uniche che vanno a letto sole, dopo aver pagato due insalatine e due Mohijtos 100 dollari, sono le nostre italiane. Dal momemto che a Miami conta più la verve che la borsetta Yves Sant Lorent (nome che per il maschio cubano medio è solo quello di una colonia francese in Jamaica). Per il resto è vero, impossibile guidare su collins avenue senza procurarsi un torcicollo o rischiare di tamponare qualcuno distratti dalla VISIONE dei tre ANGELI DALLA TETTA SPORTA (Didi, Vivienne, Pilar)...

"Ladies half-dressed, fully equippedAnd they be screaming out, (Uncle ALP we loved your last hit*)".
Le fanciulle desiderano ogni sera il colpettino della buona notte, sono loro a venire a chiedertelo, tu l'unica cosa che devi fare è dire "Yo, let's go, I am cool!" (i romani invece insistono con il loro internazionale "Ahò, Fata namosene a chiavà!") ... Non importa chi sei, da dove vieni e come ti chiami. Ricorda, sei a Miami.

Ma anche qui è doverso segnalare un' eccezione, trattasi dell'imbranato medio "Bauscia Milanese", abituato ad assi di bastoni e a due di picche al suo Paese (ne conosco tanti qui a Milano e ne ho visti tanti anche a Miami). Il suo stock di magliette Ambercrombie & Fitch e di pantaloni D&G saranno utili per entrare nel locale più figo di South Beach, ma più tardi ahimè finiranno macchiati di salsa BQ sugli ultimi morsi di hamburger, mentre dice agli amici: "Figa, ma a Milano le tipe sono più carine e meno volgari!".
Nel frattempo i compari di Sicilia, Argentina, Brasile, Napoli (Naples in FL) e addirittura anche i garcons di Francia staranno spruzzando, come pomp_ieri (anche oggi tranquilli) impazziti, le ultime risorse di fantasia su di un letto sgualcito; alla penombra di una luce a neon di un Hotel a 5 stelle. Mentre le vibrazioni delle natiche di lei accompagneranno la vista di lui verso l'alba dell'oceano.

Se desiderate maggiori informazioni culturali sulla Florida contattate: as.lopiano@gmail.com

*Per i non addetti ai lavori: Bottarella (ovvero colpo pelvico di indecifrabile virulenza destinato a dissolversi il giorno dopo)



(nel video) "Miami" di Will Smith

martedì 14 luglio 2009

La divina Toscana

Toscana,
May 2009

Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva illuminata, che la dritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual’era è cosa dura, mettendo piede giù da un treno che veloce ti aveva portato in mezzo ad un campo di girasoli che seguivano una palla dorata in cielo danzando su melodie nascoste. Un profumo di fiori che penetrava le mie narici che ricordavano solo il sapore di salsedine di paradisi marittimi lontani ed invadevano i miei occhi abituati a grattacieli immensi. Lontano dal mondo, ad un passo dal cielo. Terra di quel Dante tanto odiato a scuola che – una volta – giurerei aver visto schiacciarmi l’occhiolino da un’illustrazione sul libro, come a voler dire “...un giorno apprezzerai anche tu”.

Un fiume lunghissimo, senza inizio, senza meta, sulla piena delle sensazioni di chi lo guarda al tramonto, in una Firenze che di signorile nasce dal nome stesso e mai conoscerà tramonto. Dalla finestra di un casolare rustico che splende al sole, la magia di un posto così vicino a noi dal risultare quasi introvabile. Nello stridore delle rotaie della ferrovia, l’urlo di un treno che veloce prova a riportarti alla realtà cosi come ti aveva portato dentro quel sogno. Un sogno dove finzione e realtà si fondono all’orizzonte. Un sogno chiamato Toscana, la terra che move il sole e l’altre stelle.

Enricuzzu

venerdì 8 maggio 2009

Folle notte a Lugano

Lugano (Svizzera),
April 30th

Si stacca lenta la pallina dalle mani del croupier, cominciando la sua folle traiettoria ipnotica, persa fra i sorrisi della gente che sa non si fermerà mai dove spererebbe il cuore. Nella mente il suono della macchina che sfrecciando nella notte ti ha portato fino in Svizzera. Nelle mani le chips di non si sa quanti franchi, troppo finti per essere presi sul serio e troppo veri per scherzarci troppo. Nel cuore i battiti ancora non domi, di una folle corsa in città che solo la luna potrà ricordare. Negli occhi il folle abbraccio impazzito di un amico che mai si sarebbe aspettato di trovarci li, tutti insieme, sotto lo stesso cielo a Lugano. Nella schiena il lungo brivido di una mano che si infrange nella fontana e ti inonda d’acqua gelida. Lo stesso brivido che ti percorre la schiena quando la pallina, rimbalzando, si posa su quel 23 su cui avresti puntato anche la vita, se solo ne avessi avuto il contratto. Quella vita che saresti pronto a scommettere in nome dell’amicizia. L’unica grande giocata la cui vittoria non svanirebbe neanche al sorgere del sole.
Les jeux sont faits.

Enricuzzu


(nella foto) Peter, Stefania, Paolasso, Enricuzzu e Georgia a Lugano.

venerdì 6 marzo 2009

Ricordo rosanero che fu...

Palermo,
March 1st

Quella sera ricordo che andai incontro a mio fratello Andrea contentissimo. Avevo la palla di pezza in mano e volevo fare due tiri in corridoio per le urla compiacenti di mia madre. Buttai la palla a terra, e la calciai verso di lui. La palla superò i suoi piedi e si infranse contro la porta senza essere stoppata. Io alzai lo sguardo e lui mi guardò. La faccia era segnata da una tristezza che non avevo mai associato al volto di mio fratello prima di allora. Si avvicinò e mi disse semplicemente "Enri... oggi non mi va di giocare". E lo vidi allontanarsi verso quella camera che avevo capito quel giorno, doveva restare silente.

Qualche anno dopo capii che quel pomeriggio del 1992 il Palermo aveva perso in casa col Catania per 0 a 2. Così, semplicemente.
Un pomeriggio di qualche giorno fa anche nel mio volto si sono disegnate quelle linee di tristezza infinita che furono allora di mio fratello. Ma a differenza sua, io non avevo nessun fratellino a cui negare qualche tiro al pallone. Ma avevo una sola certezza: che in queste occasioni nascono i veri palermitani. Quelli che capiscono che stringere una sciarpetta in mano quando si vince un Derby 5-0 è facile. Ma stringerla quando si versa un lacrima dopo uno 0-4 è da rosanero. Da rosanero vero.

Enricuzzu

(nella foto) Giovanni Tedesco alla fine del Derby

lunedì 2 marzo 2009

La matita che uccide...

New York City,
February 18th

Ricordo i sorrisi dei ragazzi che mi fermavano in Times Square la Domenica mattina. Sorrisi che fendevano l’aria e illuminavano d’immenso una New York coperta dalle nuvole. Loro ti venivano incontro e ti cominciavano a sussurrare la loro voglia di cambiamento. Il loro amore per quell’uomo nero, venuto da lontano. E a te quasi si stringeva il cuore quando dicevi che no, non eri americano. Quindi, non avresti potuto votare. Ma – magnificenza di un raggio di sole che ti trafiggeva – a loro poco importava. Ti abbracciavano e ti spiegavano quanto volevano cambiare quella terra che avevate entrambi sotto i piedi. Perché non era mai troppo tardi per inseguire un sogno. Perché quelle tre parole, te le sussurravano come un segreto d’amore: Stati Uniti d’America. Il paese delle opportunità. La terra delle speranze. Il loro piccolo grande giocattolo rotto, che stavano mettendo – come bimbi con gli occhi a goccioloni – nelle mani dell’unica persona che poteva aggiustarlo.

Poco lontano, nella carta che avvolgeva gli hot-dog, le parole si sprecavano. Le parole di chi ha la fortuna di non parlare da solo in piazza, ma di scrivere follie e farle anche pagare. Su quei giornali che deridevano l’incapacità di alzare le braccia al pubblico di McCaine, tralasciando che quelle braccia erano state appese al tetto di una cella in Vietnam. E su quegli stessi giornali che trovavano ogni giorno un motivo nuovo per non eleggere Barack. Financhè perché – per tutte le bandiere a stelle e strisce – è africano! Parole pesanti, parole taglienti, che si nascondevano dietro un vile bipartizanesimo della notizia. Fino a quando le parole, non hanno lasciato posto ad un disegno troppo ingombrante per essere nascosto. Il New York Post infatti, per mano della matita di Sean Delonas, qualche mese dopo l’elezione di Barack Obama, pubblica una vignetta (nella foto) dove sono disegnati due poliziotti che sparano ad uno scimpanzé. Nella didascalia si legge “Ora dovranno nominarne un altro per riscrivere il pacchetto di ripresa dell’economia”. Stupore. Giù il sipario. Senza applausi.

Una porcata immonda che ha l’unico pregio di ridimensionare definitivamente chi definì “abbronzato” lo stesso protagonista della vignetta. Una battuta, seppur evitabilissima, che da queste parti fu presa per tale, anche dal sognatore più accanito. Sognatore che ora, invece, ha perso tutto d’un tratto il sorriso. Sotto il cielo di una New York diventata scura di nuovo. Perché? La domanda di chi con gli occhi a goccioloni, si vede buttato il proprio giocattolo rotto a terra, davanti gli occhi. Mentre su nuove pagine sporche di senape, il Post chiede scusa.

Times Square è deserta la Domenica mattina. Nessuno ferma più nessun’altro e nessuno vuole più raccontare la favola della speranza. Un fredda mattina di metà inverno, è arrivata la matita di Sean Delonas ad uccidere l’anima di milioni di americani e ad affondare una nazione con una semplicissima vignetta. Alla faccia di chi per anni ha cercato armi più potenti. Ora non ride più nessuno. E a Central Park, anche ai piccioni è passata la voglia di sgranocchiare molliche di pane. Stavolta, possono davvero solo bastare delle scuse?

Enricuzzu

mercoledì 28 gennaio 2009

Coming back home

New York City,
December 10th

Quella sera non faceva freddo fuori. Ma io dentro gelavo. Senza un perché. Probabilmente per quel dannatissimo pasto scaduto sull’aereo che mi era stato letale. Nella stanza c’erano otto letti, neanche fosse una camerata. Tutti occupati. Della comitiva probabilmente ero l’unico non strafatto. Mi guardavano con quei mezzi sguardi che ti fanno sentire osservato come una cavia in laboratorio. Lei – l’unica ragazza del gruppo – seminuda, mi chiede se per me è un problema se si spoglia in stanza. Così, senza neanche un ciao come va. La guardo e le rispondo che al massimo posso mettermi il cuscino in faccia. Sorrido. Mi guardano tutti un paio di secondi e poi scoppiano a ridere.

Ricordo quella prima notte a New York come uno dei giorni più brutti della mia vita. Devastato da chissà quale virus, solo nel letto, in mezzo a loro. Abbracciato al computer nella paura che potessero sgamarmelo notte tempo. La valigia non preoccupava; era troppo pesante anche per un gorilla. Il display del cellulare scarico si spegneva lentamente consigliandomi di imitarlo.
Ricordo il senso di impotenza che mi attanagliava lo stomaco quella notte. Quel senso che mi faceva capire di essere solo dall’altro lato del mondo e di dovermela cavare senza aiuti. Quel senso che ti genera la fame. La fame che ti genera il senso di sopravvivenza. In quella città dove se cadi la gente non solo ti ignora, ma ti passa anche sopra calpestandoti.
Ricordo i posti dove ho dormito. Ora un letto fra otto, ora un divano da amici, ora addirittura un pavimento con piumone e cuscino.
Ricordo quella sera passata a passeggiare tra le vie di Manhattan con la valigia in mano, cercando dove avrei dovuto dormire quella volta.
Ricordo quella stanza doppia al Residence YMCA con Erkan, che dava una svolta a tutta l’avventura, nel segno di lenzuola, piumone e due cuscini dicasi due.
Ricordo il primo giorno di lavoro a Brooklyn col mio Boss.
Ricordo il profumo dei ravioli freschi che commercializzavo, dandogli una mano.
Ricordo come quei ravioli erano fatti a mano come piccoli segreti da chi non aveva bisogno di una cartolina per vedere l’Italia.
Ricordo quel ponte lunghissimo che lasciava tre metri sopra il fiume tutte le sue opportunità in attesa che qualcuno le cogliesse.
Ricordo Sheena e Shing, le prime due ragazze che ho conosciuto, con cui ho capito di non essere solo, neanche in un mondo aldilà dell’oceano.
Ricordo la valanga di gente conosciuta dopo.
Ricordo quelle persone che mi hanno voluto bene, seppur consapevoli di incrociare la mia vita solo per istante.
Ricordo l’erba di Central Park, il cui profumo era profondissimo nelle mie narici quando preparavo l’esame forse più importante della mia vita.
Ricordo la faccia dei newyorkesi accanto a me quando mi misi a saltare all’impazzata ricevuto l’esito positivo.
Ricordo il sorriso con il quale davo informazioni per strada, su una città che dopo avermi messo alla prova aveva fatto poca fatica ad entrarmi nel taschino.
Ricordo il sorriso dell’impiegato dello Starbucks Coffee quando ogni mattina, senza neanche dover dire una parola, mi preparava il Frappuccino facendomi sentire uno di casa.
Ricordo il sorriso che mi cancellai dalle labbra quando un simpatico amico di due metri mi rispose incazzato alla domanda “Where am I?” - “The Bronx”.
Ricordo il display del cellulare che si illuminava un numero imprecisato di volte al giorno, per farmi capire che mio fratello solo non mi lasciava.
Ricordo sempre lo stesso display dello stesso cellulare che si illuminava anche la notte per farmi capire che i miei genitori non erano da meno del fratellone.
Ricordo le folli notti in discoteca che si spegnevano con la luce del sole.
Ricordo le spallate pesantissime che mi davano gli americani per insegnarmi il basket.
Ricordo gli insulti che mi lanciavano quando insegnavo io come la palla da calcio che passa fra le gambe si chiama ‘tunnel’.
Ricordo tutto il Madison Square Garden in piedi a cantare l’inno nazionale, mani sul cuore, prima della partita dei Knicks.
Ricordo quel tacchino enorme nel Giorno del Ringraziamento messo al centro della tavola.
Non ricordo quante porzioni ne feci fuori.
Ricordo le facce sognanti dei ragazzi che in piazza mi fermavano e mi davano i volantini con la faccia altrettanto sognante di Barack Obama. Gente che prediva il futuro.
Ricordo il silenzio surreale di Ground Zero.
Ricordo la pioggia fitta del Queens.
Ricordo Lady Liberty che mi guardava sinuosa da lontano.
Ricordo la lacrima che l’oceano di Coney Island sta ancora custodendo per me.
Ricordo l’abbraccio fortissimo, quasi schiacciante, di chi mi ha salutato il giorno della partenza.
Ricordo la lacrima che non tirai fuori e che mi cadde dentro il cuore.
Ricordo quelle nuvole nelle quali si infilò lento il Boeing che mi avrebbe riportato a casa.
Ricordo quei mesi americani trascorsi come se fossero un lunghissimo respiro.
Ricordo il quarto di dollaro con cui giocavo all’aeroporto di Londra.
Ricordo lo sguardo perso nel vuoto.
Ricordo “Ehi man… what’s wrong?” – “Nothing. I’m coming back home.

Qualche giorno dopo, mentre il cuscino gioca ad abbracciare la mia testa, in televisione raccontano come il Comandante “Sully” ha preso un Jet con due motori scoppiati e lo ha fatto ammarare nel fiume Hudson. Alzo gli occhi. Guardo quella gente nello schermo. Vedo gli abbracci sullo sfondo dei grattacieli. Guarda cos’è successo nella mia New York, penso. Gli amici accanto a me, sapendo della mia anima prettamente californiana, mi fanno notare il “possessivo” sorridendo. La mia New York. Sorrido anche io. Sono partito col corpo ma non ancora con l’anima. E probabilmente non partirò mai. Perché seppur il futuro mi riserverà altri angoli del mondo, quei grattacieli, quella gente, quella City mi resteranno per sempre dentro. A un passo dal cuore. Perché un sogno – se è davvero immenso come il mio a stelle e strisce – non può finire mai. Può soltanto essere messo in pausa.

Enricuzzu

venerdì 16 gennaio 2009

Chesley Burnett Sulleberger

Manhattan (NY),
January 15th

Chesley Burnett Sulleberger.

Nessuno lo conosce. Probabilmente - parenti a parte - nessuno lo conoscerà in futuro. Ma quest’uomo, nel pomeriggio di ieri, ha preso in mano uno Jet della US AirWays in volo verso Charlotte (North Carolina) e con due motori scoppiati (causa collissione con uno stormo di uccelli) lo ha fatto ammarare nel fiume Hudson a ovest di Manhattan, dribblando grattacieli ed evitando per poche centinaia di metri di non farlo abbattere in zone “civili”.

154 persone da ieri lo possono considerare un secondo papà. Ed anche una seconda mamma. Ma ironia della sorte, probabilmente il suo nome sarebbe stato più conosciuto se tutti fossero morti. Siamo bravi a ricordare solo stragi. Ma se una volta tanto osannassimo le stragi evitate grazie a un uomo con due coglioni grandi cosi?

Enricuzzu

(nella foto) Il Jet della US AirWays nel Hudson River